

Michele Faidiga
Faidiga Variazioni sul Tema
Variazioni
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Tema
Palazzo900 Editore

Variazioni
sul
Tema
di Michele Faidiga
Tema
Dalle pericolanti e infeconde vette alle fertili piane pascolate, dalle gelide acque artiche alle spiagge alabastrine fiancate da palmizi, dai marmorei balconi di città alle sonnolente casupole di qualche rado paesello, dalle fabbriche, dalle risaie, dalle miniere a cielo aperto fortuna e sventura di molti, dagli schermi divinità di ogni abitazione o luogo d’incontro e di socievolezza, dai tanti luoghi spopolati e più adatti alla nostra spontanea selvatichezza, in ogni cantuccio di questa terra grama laddove s’è barbicato l’uomo, ovunque, incombeva immobile e silenziosa quella forma indefinita.
Apparsa alla chetichella la mattina della prima domenica di febbraio, mese poco incline alle novità, s’era piazzata all’orizzonte come nulla fosse, sgomitando un po’ sia detto, ma senza una vera prepotenza, una o due spinte, tanto da guadagnarsi un posticino “in prima fila” e li restarvi a fare chissà che, perfettamente immobile e del tutto inutile. Che dire, se ne stava lì, senza apparente volontà, lasciandosi amare da questi e odiare da quelli, disattenta, incurante del putiferio causato di sotto. Contemplata dagli animi più sensibili, magnificata, esaminata in ogni minuzia, a nulla erano valse le proteste di molti che le imputavano, tra grida e cartelli sbilenchi, il peggioramento del naturale confine tra cielo e terra, quella linea dell’orizzonte che incombe dal primordio sulle travagliate vicende umane.
Le sue origini, ipotizzate diverse, incutevano timore e religiosità. Interi popoli riconobbero in essa il manifestarsi dell’attesa profezia, il compimento del disegno divino, altri denunciata la sua genesi infernale si preparavano al peggio. In realtà, se di realtà si può parlare, quell’affare era sempre stato lì, alla giusta altezza e in quel preciso angolino, non un po’ più in qua e neppure un po’ più in là, visibile o invisibile secondo un principio del quale non è dato sapere. Ciò detto, non rimane che riferire di coloro ai quali, per questo o quest’altro motivo, essa s’è rivelata.

Novembre 2022
Variazione I
Il pescatore
“Corpo di mille balene, che fissi a fare? Impalato come uno stoccafisso a guardar per aria, che ti credi è nel mare che stanno i pesci e noi si campa di pesce non di aria.”
Il capitano della Vergine del mar, un peschereccio poco più grande di una tinozza, varato quand’era ancora piccino e che ora gli anni e la salsedine avevano ridotto a una bagnarola rugginosa, non era tipo da gettare del tempo fuoribordo. Con le mani bruciate dal sale afferrò la cima del giacchio e prese a tirar le reti, mentre una smorfia ne solcava la pelle sgualcita del viso, invecchiata di tre per ogni anno trascorso tra burrasche e pleniluni.
Salvatore (lo stoccafisso per intenderci) annuì, si chinò sulla tolda e afferrò anch’egli il cordame recuperando con misurata lentezza, presa dopo presa, quelle reti flosce e spopolate. Il gesto era sofferto, faticato, come fossero colme e pesanti, gravide di guizzante pescato, giacché l’abitudine è usa imbrogliare i sensi e imporre all’occhio la propria misura. Di tanto in tanto, incastrati tra le maglie, venivano a galla una lattuga di mare, due o tre granchietti sull’attenti e dell’alga viscosa e nauseabonda, ma di pesci no, nemmeno di quelli minuti che sovrabbondano in quelle acque, quasi non abitassero più la sotto, nelle tenebrosità marine. Se n’erano andati altrove, forse attirati dalla “cosa” che alle prime luci del giorno s’era ficcata tra il cielo e il mare e la era rimasta in barba all’orizzonte.
“…Alghe e melma, melma e alghe. Non s’è mai vista una tale brodaglia” Mugugnò Salvatore, sputacchiando del tabacco da mastico oltre il parapetto, prima di rivolgersi all’altro: “Capitano, oggi è meglio non supplicare Sant’Andrea, senza pesce nelle ceste finisce che ci moltiplica la miseria!”
Un ghigno bonario scivolò dalle labbra del marinaio, mentre raccattava un anello di sughero scolorito, che era stato di un bel rosso scarlatto. Prometteva allora, in qualche bottega del porto, interminabili impieghi vantando di poter galleggiare ovunque e per sempre. Ma ora, sciupato e roso dai molluschi, abbandonate le promesse perpetue, si mostrava del tutto inutile. Il capitano, turbato, lo scagliò in mare, il più lontano possibile, accompagnandone con lo sguardo il dondolio sull’onda fino a dove poteva, stentando a lasciarlo andare.
“Aveva anch’egli persa la brillantezza degli anni buoni? Quanto sarebbe trascorso prima che l’umido che pativa nelle ossa lo consumasse al punto da non poter più pescare?” Torvi pensieri lo assalivano trascinandolo al largo. Ad un tratto un gabbiano avido di scarto si tuffò e cinse il natello con il becco uncinato pensando a chissà quale boccone.
“Ecco cosa m’attende. Galleggiare alla deriva, alla mercè dell’onda e poi d’un tratto, zacchete, cibo per i pesci.” Borbottò provando un certo perverso piacere. Egli sapeva di aver sacrificato al mare i suoi anni migliori ma non ne era rattristato, alcun rimpianto provava per aver disertato le case e la gente che le abitava. Invero la terraferma, gli era stata via via più sgradita, aliena, e la Vergine del mar era divenuta il suo rifugio. Il mare, al quale neppure le scogliere più brusche riescono opporsi, poco alla volta ne aveva erosa l’anima e ora si preparava a custodirne le mortali spoglie.
“Colpa di quell’affare che ha messo tutto sottosopra!” Ci pensò Salvatore a distoglierlo da quegli infausti presagi. “Quell’intruso, quel figlio di una canocia vuota, ha stregato i pesci e rivoltato gli abissi. Che ne pensa capitano, se ne andrà o c’è da temere avanti?”
“Apri bene le orecchie, ti dico che se quell’affare è venuto per menar le mani… noi si può star tranquilli. Non si conta nulla, si puzza solo di pesce!” Sbottò il Capitano. “Fidati, noi si deve aver paura solo del pescicane, dello scoglio infingardo e della moglie gelosa, non di questa novità. Quella “cosa” se ne sta lì per altri, per i signori della città che al mercato comprano il nostro pesce tappandosi il naso.” Concluse voltandosi verso l’oggetto metallico che se ne stava sospeso, perfettamente immobile, al largo.
“C’ha ragione capo, a noi non ci bada nessuno, anche la mia Marieta non è più contenta di vedermi. Va alla scuola serale, impara a leggere e a fare di conto e si vergogna di me. Dice che boccheggio, che non so parlare, che somiglio a un pesce.” Fece una pausa, per accomodare una rete intricata e riprese: “Ma a che ci serve saper parlare su questa barcaccia! Quattro parole, due bestemmie e ci si intende. E quel dannato tramonto, quello infuocato che ti luccicano gli occhi da quanto è bello, lo guardiamo anche noi, ma in silenzio, senza bisogno di paroloni per ricordarlo. Capo come lo spiego alla Marieta che ne ho visti tanti e tanto belli che non li posso dimenticare nemmeno se mi rinchiude nella stiva. Dentro mi deve guardare la mia Marieta e scommetto che ci trova tante di quelle meraviglie che non dovrà leggere altro e noi due si potrà vivere contenti.” Afferrò la barra del timone, le gambe molli, scosso peggio che dai marosi, per riprendersi da lì a poco, assalito da un dubbio più concreto: “Ma il pesce Capitano? Dov’è finito il pesce?”
“Che ne so, forse le reti si sono vuotate perché hai tardato a tirare e i pesci si sono liberati. Te ne stavi con la testa all’insù come un cane che ringhia alla luna…”
“Alla luna!” Ripeté a gran voce il Capitano levando lo sguardo al cielo: “Una luna nova. Ecco cos’è sta roba Salvo! Sai che si fa? Noialtri ci si sposta a pescare laggiù, vedi vedi che i pesci se ne stanno pigiati là sotto.”
Neppure il tempo di muovere la prua, che a babordo un tonno spicca un salto che pare un delfino, seguito da un altro e poi un altro ancora, a diecine, a centinaia.
“Salvatore i tonni! Rema che stavolta, quant’è vero iddio, si riempie la stiva di pesce. Sai che ti dico, appena a terra pagherò per un altarino con dentro una bella Madonnina con la luna in braccio. E se peschiamo del pesce spada ci metto anche tre ceri, di quelli grossi, da tener sempre accesi. Viva la luna nova! Viva la vita nova! Rema Salvo rema …”

Dicembre 2022
Variazione II
La monaca
Dal pagliericcio posto in un cantuccio della cella, Suor Germana fissava, nel bel mezzo della finestrella alta sulla paretina di fondo, da sempre solo cielo e solo nuvolo, quella forma sospesa e irriverente che le aveva rubato quel poco di firmamento concessogli da quando s’era votata alla clausura.
Il primo giorno, al risveglio, aveva percepito il cambiamento, stropicciato gli occhi con una mano, mentre l’altra tastava, con tormentata agitazione, in cerca degli occhiali. Occhiali dalle lenti spesse che le avrebbero mostrato i soliti oggetti inanimati ancora al loro posto e null’altro, relegando quell’apparizione tra le fantasticherie notturne, veritiere solamente fino a che sorge il sole. Ma, con gli occhiali poggiati sul naso, ugualmente quella screanzata insisteva ad occupare il suo quadratino di cielo, e ora ne poteva cogliere i particolari con straordinaria chiarezza.
La monaca scivolò i piedi nudi dal bordo del modesto giaciglio, per alzarsi inquieta, le mani giunte a preghiera, movendo dei passi in su e in giù come poteva in quel poco spazio, avvolta dalla quiete claustrale alla quale s’era consacrata. Costrettasi alla ragione, stabilì che avrebbe ignorato la novità, dedicandosi alle orazioni ed alle consuete attività quotidiane con speciale meticolosità, obbligando l’intrusa, a tornare tra gli inferi o chissà quale altro luogo orribile dal quale era venuta.
Più tardi nella cappelletta, nel refettorio, in quei luoghi del monastero praticati per adempiere agli obblighi della Santa Regola, tra le consorelle non trapelò alcuna irrequietezza, tanto che si fece strada in Germana il convincimento di essere l’unica a sapere. Capiva che ciò la opponeva alle altre, ma per qualche strana ragione non le spiaceva, si smuoveva in lei una certa assopita vivacità, forse memoria di giorni perduti, forse principio di nuovi propositi. In verità ciascuna delle sue compagne era al corrente dell’apparizione, tuttavia, educate all’esecuzione comune, si muovevano ora a passo cadenzato, agendo d’intesa, cosicché, allarmate o attratte da quella “cosa” senza Dio, tutte avevano ugualmente preferito ignorarla mascherando il turbamento.
Il secondo giorno, mentre le ombre della notte arretravano incalzate dall’incedere del crepuscolo mattutino, ella non poteva darsi pace, sogni tremendi ne avevano eccitato l'animo e ora avvertiva quella sagoma maledetta affiorare dall’oscurità evanescente. Per soccorrerla un raggio di sole, il primo del nuovo giorno, attraversò la cella in un turbine di luccichii, scolpendo una croce ombrosa sulla porticina del cubicolo. Ne trasse un messaggio divino e, segnatasi nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, sollevò la tonaca scoprendo due gambe alabastrine ancora desiderabili, intenzionate ad arrampicare lo sgabello da preghiera trascinato a bella posta sotto il pertugio inferriato. Era decisa a guardare meglio, sfidare colei che osava spezzare l’orizzonte, quella linea del creato semplice ma perfetta, rilucente e piena d’amore, forgiata dall’Eterno salvatore per allietare i figli suoi diletti.
Ma a Suor Germana, aggrappata e in punta dei piedi, il volto incorniciato da quattro sbarre ferruginose, non apparve l’avversa forma diabolica, bensì un giovane moretto, dal viso angelico, lo sguardo di pietra e il petto nudo, madido di sudore. Il giardiniere, che potava un roseto del chiostro, ne aveva, chissà come, percepita la presenza e, prima che ella rovinasse per la sorpresa con il sedere a terra, le fece il cenno, privo di malizia, di porgerle una rosa.
Il terzo giorno da quando era apparsa all’orizzonte quella disgrazia, Germana aveva indugiato a levarsi trascurando le lodi mattutine, immobile, rannicchiata nel letto di paglia, mentre il disagio dei giorni innanzi mutava in collera. Quel mondo che ancora giovinetta aveva ripudiato, pur nella sua ignominia le era sempre stato accanto, immutato, due tre passi al di là delle mura del monastero. Ma ora non lo riconosceva più, non poteva fingere che fosse ancora lo stesso, perché quell’affare senza Dio insisteva al confine fra cielo e terra e occorreva tenerne conto.
Al desinare, oltre il ligneo picchiettio dei cucchiai nelle ciotole, sui tavolacci era calato un silenzio nuovo, diverso da quello consueto, gioioso e traboccante di bene. Questo all’opposto era vuoto, profondo, e occorreva colmarlo perché è negli abissi trascurati dell’anima che prendono forma gli appetiti mondani. Germana, assalita dal dubbio di non essere la sola a sapere, sollevò lo sguardo e incrociò due occhi scuri, esitanti e tormentati che, colti in fallo, si tuffarono nella scodella senza più rialzarsi. Anche la Madre badessa, al capo della tavola, posato il cucchiaio, prese a sfregarsi le mani mentre fissava qua e là, senza tregua, in preda a una speciale frenesia.
“Controlla che tutto sia in ordine, che ognuna di noi si attenga ai precetti”, si figurò Germana, in un ultimo vano tentativo di restaurare la serenità smarrita.
Quella sera, inginocchiata, con il rosario stretto tra le mani così forte da far male, anche le preghiere che rivolgeva al suo Sposo celeste non servivano più a tanto, inaridite, sopraffatte da pensieri inconsueti, nostalgie di donna alla quale si porge una rosa.
La mattina del quarto giorno, Germana, dismessa la tonaca, attraversava con passo risoluto la calle antistante il convento, vivificata dal trambusto operoso della città . Al contrario la “cosa”, liberata dal giogo dell’angusta finestrella, appariva ora rimpicciolita, indebolita, addirittura invecchiata. Se ne stava lì appesa come un gingillo dimenticato in un cantuccio trascorse le festività. Nessuno ne diceva e tantomeno la indicava, sfiorita l’eccitazione iniziale era ora destinata all’oblio. Anche Germana ne distolse lo sguardo, richiamata dalle parole di un uomo con le spalle poggiate al muro cinerino del monastero:
“Ehi bella, l’altra mattina…dico, non eri tu che…?”
“Sicuro che ero io! Andiamo, oggi è un giorno speciale e ho voglia di ballare.” Fece al giardiniere prendendolo sottobraccio e strattonandolo a tratti.
“Un tempo ne ero capace…”

Gennaio 2023
Variazione III
Il bagnante alle terme
Sprofondato, senza alcun decoro nell' acqua opaca, tiepiduccia quanto le pozze di marea che ristagnano a tratti sulla battigia nelle stagioni afose, Alessandro Gorneretti funzionario ministeriale in congedo curativo tentava, con palese insuccesso, a godersi le terme.
Infastidito dal borbottio indisponente dell’idromassaggio, egli si figurava ad occhi aperti, per non risultare sciocco, trovarsi in qualche pozza del nord, di quelle fumanti tra le nevi, alimentate da sorgenti d’acqua chiarissima e igienica, intiepidita nelle profondità ipogee da corsi di lava sanificante. Ma il tremolio delle trippe adipose del vecchio di fronte e ancor più la sua espressione sofferta (chissà se anch’egli agognava la sua comoda poltrona di città) lo obbligava alla squallida realtà.
“Si spera almeno che questi bagni favoriscano la guarigione.” Mugolò per empatia rivolto al compagno di sventura.
“Speriamo.” Rispose questi a rilento, mentre tentava alzarsi, con il fare di chi ha smesso da un pezzo di sperare.
Gorneretti si tirò in parte, poggiando il capo su di un cuscinetto duro e scomodo, di quel materiale biancastro, quella plastica slavata che sovrabbonda nelle nostre stazioni termali, mentre l’omone, gravato dal troppo peso, malediceva ogni gradino per il gran dolore alle ginocchia.
Fu all’ora che la scorse. Una massa scura e minacciosa, sospesa sopra il delfino dal muso rincagnato, la fontanella di marmo fasullo, che piaceva tanto ai piccini e altri di quella specie. Una ghirba gli parve, di quelle ottenute dallo stomaco di un bue, ma dilatata all’inverosimile, espansa, gonfiata tanto da ombreggiare i colli là dietro. Egli ne riconosceva l’intenzione bellicosa, non si poteva sbagliare, era venuta per bonificare queste paludi brumose, per liberare in un sol colpo le genti da secoli di soprusi termali e condurli in luoghi migliori, pianori accarezzati da venti odorosi d’erbe spontanee e non da asfittici sentori di malattia.
“Credo che porrò fine a tutto questo.” Esclamò portando le mani a gran voce per sovrastare il frastuono e raggiungere l’omone a bordo piscina.
“Può farlo?” Chiese questi con un filo di voce, scosso da un fremito di speranza.
“Credo di sì, di poterlo fare…” Replicò il primo indicando l’entità micidiale che giurava tempesta.
“E sia. Tutto questo non va bene.” Stabilì accennando ai vapori mefitici e alle genti straziate nella bolgia infernale prima di avviarsi, claudicante, verso gli stanzini.
“E sia!” Gli fece eco il capoufficio ministeriale in congedo curativo, le gambe ancorate al fondo, la testa eretta e le braccia al cielo, per comandare a quella enorme massa sospesa di schiantarsi su quegli acquitrini immondi.
Trascorso un tempo indefinito un bambinello, a cavalcioni sul delfino rincagnato, prese a scimmiottarlo, seguito a ruota, per la noia o unicamente per spirito di emulazione, da quelli intorno e molti altri, tanto che in breve tutti o quasi alle terme mostravano i palmi delle mani al cielo, taluni convinti di prendere parte a qualche curativa ginnastica di gruppo, altri così, tanto per fare, senza pretenderne la ragione. Il sole, nel frattempo, aveva superato lo zenit e le pupille decontratte non pativano più il controluce. Sicché era facile leggere lo slogan pubblicitario, impresso a caratteri cubitali sul ventre del grandioso dirigibile, pilotato a bell’apposta sopra gli stabilimenti, prima che questi, all’imbrunire, invertisse la rotta attratto dai luccichii della città, rimpicciolendosi via, via, fino a scomparire del tutto.
“L’acqua termale ti aiuta a orinare, nuota un po’ qui e farai più pipì!”
Ripetevano i bambinelli in una sorta di cantilena senza fine, storpiando per giuoco la réclame apparsa nel cielo delle colline, presto zittiti dalle mamme, in fondo anch’esse divertite, intente a sistemare i lettini un palmo gli uni dagli altri, delle file senza inizio e senza fine tra le quali girondolava, il volto stranamente rincagnato, Alessandro Gorneretti costretto per sempre al giogo termale.
Sprofondato, senza alcun decoro nell' acqua opaca, tiepiduccia quanto le pozze di marea che ristagnano a tratti sulla battigia nelle stagioni afose, Alessandro Gorneretti funzionario ministeriale in congedo curativo tentava, con palese insuccesso, a godersi le terme.
Infastidito dal borbottio indisponente dell’idromassaggio, egli si figurava ad occhi aperti, per non risultare sciocco, trovarsi in qualche pozza del nord, di quelle fumanti tra le nevi, alimentate da sorgenti d’acqua chiarissima e igienica, intiepidita nelle profondità ipogee da corsi di lava sanificante. Ma il tremolio delle trippe adipose del vecchio di fronte e ancor più la sua espressione sofferta (chissà se anch’egli agognava la sua comoda poltrona di città) lo obbligava alla squallida realtà.
“Si spera almeno che questi bagni favoriscano la guarigione.” Mugolò per empatia rivolto al compagno di sventura.
“Speriamo.” Rispose questi a rilento, mentre tentava alzarsi, con il fare di chi ha smesso da un pezzo di sperare.
Gorneretti si tirò in parte, poggiando il capo su di un cuscinetto duro e scomodo, di quel materiale biancastro, quella plastica slavata che sovrabbonda nelle nostre stazioni termali, mentre l’omone, gravato dal troppo peso, malediceva ogni gradino per il gran dolore alle ginocchia.
Fu all’ora che la scorse. Una massa scura e minacciosa, sospesa sopra il delfino dal muso rincagnato, la fontanella di marmo fasullo, che piaceva tanto ai piccini e altri di quella specie. Una ghirba gli parve, di quelle ottenute dallo stomaco di un bue, ma dilatata all’inverosimile, espansa, gonfiata tanto da ombreggiare i colli là dietro. Egli ne riconosceva l’intenzione bellicosa, non si poteva sbagliare, era venuta per bonificare queste paludi brumose, per liberare in un sol colpo le genti da secoli di soprusi termali e condurli in luoghi migliori, pianori accarezzati da venti odorosi d’erbe spontanee e non da asfittici sentori di malattia.
“Credo che porrò fine a tutto questo.” Esclamò portando le mani a gran voce per sovrastare il frastuono e raggiungere l’omone a bordo piscina.
“Può farlo?” Chiese questi con un filo di voce, scosso da un fremito di speranza.
“Credo di sì, di poterlo fare…” Replicò il primo indicando l’entità micidiale che giurava tempesta.
“E sia. Tutto questo non va bene.” Stabilì accennando ai vapori mefitici e alle genti straziate nella bolgia infernale prima di avviarsi, claudicante, verso gli stanzini.
“E sia!” Gli fece eco il capoufficio ministeriale in congedo curativo, le gambe ancorate al fondo, la testa eretta e le braccia al cielo, per comandare a quella enorme massa sospesa di schiantarsi su quegli acquitrini immondi.
Trascorso un tempo indefinito un bambinello, a cavalcioni sul delfino rincagnato, prese a scimmiottarlo, seguito a ruota, per la noia o unicamente per spirito di emulazione, da quelli intorno e molti altri, tanto che in breve tutti o quasi alle terme mostravano i palmi delle mani al cielo, taluni convinti di prendere parte a qualche curativa ginnastica di gruppo, altri così, tanto per fare, senza pretenderne la ragione. Il sole, nel frattempo, aveva superato lo zenit e le pupille decontratte non pativano più il controluce. Sicché era facile leggere lo slogan pubblicitario, impresso a caratteri cubitali sul ventre del grandioso dirigibile, pilotato a bell’apposta sopra gli stabilimenti, prima che questi, all’imbrunire, invertisse la rotta attratto dai luccichii della città, rimpicciolendosi via, via, fino a scomparire del tutto.
“L’acqua termale ti aiuta a orinare, nuota un po’ qui e farai più pipì!”
Ripetevano i bambinelli in una sorta di cantilena senza fine, storpiando per giuoco la réclame apparsa nel cielo delle colline, presto zittiti dalle mamme, in fondo anch’esse divertite, intente a sistemare i lettini un palmo gli uni dagli altri, delle file senza inizio e senza fine tra le quali girondolava, il volto stranamente rincagnato, Alessandro Gorneretti costretto per sempre al giogo termale.
La storia è testimone dei tempi,
luce della verità,
sorgente della memoria,
maestra di vita,
messaggera dell'antichità.
“In breve, la storia è un faro che traccia la rotta e illumina la via.
D’ora in poi, mie care zucche vuote, sarà vostro dovere abbracciare il passato per anticipare il futuro. Tutto è accaduto, scritto e descritto dai nostri avi, inutile scervellarsi per indagare chissà quale novità, se vi tormenta un dubbio è sufficiente sfogliare un bel tomo impolverato e abracadabra il dubbio è fugato!”
In tal modo principiava il corso di storia antica il professor Montecricchi, un tempo insegnante benemerito nelle scuole del regno, ora, causa travagliate vicende di cuore e di portafoglio, senzatetto e vagabondo per le strade della grande città.
Ma un bel nulla profetavano gli antichi riguardo quell’affare, tale e quale alla capoccia mozzata di un antico colosso che, apparso nel mezzo di un fulgido tramonto, occupava, in preciso equilibrio tra cielo e terra, parte della consueta visuale. A dispetto di coloro che lo ritenevano un miraggio questi si faceva di giorno in giorno più corposo, stabilizzato, comodo perfino e accolto nel circondario come uno di casa.
Resta inteso che tale ospitalità non poteva essere approvata dal Montecricchi, egli non era uso accettare il nuovo senza che ne fossero soppesate origine e intenzioni, pertanto, rispolverato il trascorso rigore scientifico, investigava quella anomalia atmosferica attraverso le sozzure appiccicate al parabrezza della sua autovettura, un tempo rombante e sportiva, ora approntata a roulotte in bilico su quattro mattoni a lato di un parchetto pubblico del centro.
Ugualmente non gli riusciva venirne a capo, mai era stata documentata una tale bizzarria, una singolarità a confronto della quale le gesta più audaci, le battaglie più cruente, gli eventi più celebrati, apparivano delle sciocchezzuole.
Trascorsa la notte, il sonno spezzato dai turpiloqui di un bevone e dai lampeggianti delle guardie, Montecricchi, indossato il vestito buono custodito sotto il sedile del passeggiero in compagnia di alcune bilie di naftalina, si recò odoroso ma decoroso alla bidelleria del “Regio istituto per l’istruzione classica”. Egli era deciso ad accedere, costi quel che costi, alla grande sala barocca, la biblioteca scolastica, per ricercare tra le pagine di certi vecchi libri un cenno, un’indicazione riguardo l’apparizione aliena.
“Cara Eleonora che bello rivederla. Ne è passata di acqua sotto i ponti. La turbolenta corrente della vita ci trascina tutti, tutti tranne lei che resiste caparbia.” Irruppe sorprendendo la bidella con la moka in mano intenta a preparare il caffè.
“Non esagero nell’affermare che mi trovo al cospetto di una eroina, un modello di virtù da proporre alle nuove generazioni che sappiamo alla deriva. Mi lasci gridare ai quattro venti il suo ardimento, la sua abnegazione, la sua...” Insisteva trascinato da un eccesso di enfasi.
“Santo cielo Professore, la prego non gridi, nell’aula grande si tiene una lezione di latino, dica, dica pure ma sottovoce.” Lo interruppe questa posando la caffettiera per indicare un punto indefinito del corridoio.
“E sia! Sottovoce ma non sottotono, quando si tratta di lodare chi lo merita!” Puntualizzò ripigliando più pacato. “Mia cara, rimembro ancora quel tempo della nostra vita, il primo giorno di servizio intendo, allora mi sono detto: questa ragazza ne farà di strada!
“Professore, non le posso dar torto, di strada ne ho fatta eccome, da casa a scuola sono quattro chilometri e mezzo, nove tra andata e ritorno, macinati a piedi tutti i santi giorni.” Precisò attenta a far di conto sulla punta delle dita.
“Ora mi spiego come conserva questo figurino, brava, ha fatto tesoro dei miei consigli. Ricorda? Mens sana in...”
“...in corpore sano, accipicchia se lo ricordo, l’ho cancellata al termine di ogni sua lezione tanto da procurarmi una borsite, e ora fatico reggere la caffettiera...” Lamentò sostenendo a bella posta il gomito destro con la mano sinistra.
“Quisquilie, cara Eleonora,” minimizzò il professore senza fissa dimora, “lei attesta che la mente è porosa e la sapienza penetra, attecchisce in ogni dove. Brava e bella la mia bidella”.
“E no caro professore, brava d’accordo, bella passi, ma bidella proprio no! Collaboratrice scolastica o, per dirla tutta, addetta ai servizi generali della scuola. Non lo sa che bidella è proibito?” Fece con il tono di chi ha subito un'ingiuria.
“Clemenza, amica mia, sono datato quanto la sua moka e questi arzigogoli verbali risultano sgradevoli alle mie orecchie quanto il caffè solubile al suo palato. Pane al pane e vino al vino, cara la mia addetta ai servizi di questo e di quello.”
“Beh, se la mette così e non può altrimenti...”
“Non posso mia cortese Eleonora, non posso.” Incupì scotendo il capo.
“Suvvia professore, non l’abbia a male, mi chiami come crede”, acconsentì conciliante l’incaricata a variegati servizi, “in fondo bidella è un nome gradevole, informale, persino familiare”. Confessò guardinga per il timore di essere intesa da altri.
“Piuttosto mi spieghi cosa l'ha condotta qui.”
“Ad un tratto ho udito il richiamo dei luoghi ove tra le sudate carte il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte.”
“Ah, il richiamo del coro.” Bofonchiò questa a mezza voce seguitando a bazzicare con il fornello che stentava accendersi.
“Il coro?” Chiese perplesso il Monticelli.
“Certo, il ritornello...”
“Il ritornello?” Fece il professore sempre più confuso.
“Sicuro, il ritornello del coro!” Ribadì la bidella scandendo le parole come si usa con chi è tardo di comprendonio.
“Si spieghi meglio mia cara, chiarisca o comincerò seriamente a preoccuparmi!”
Una vampata azzurrognola le consentì di svelare l’arcano: “È ovvio, gli alunni del ginnasio hanno messo in scena l’Adeste Fideles per la recita di Natale”, venite, venite fedeli, si mise a canticchiare, “ha udito il ritornello quindi ha travisato, ecco tutto.”
“Capperi, lei intende dire che ho udito venite-venite e perciò sono venuto? Ammaliato alla stregua di Ulisse in balia delle sirene?”
“Sicuro, lei è qui, quindi è venuto. Quanto a Ulisse e alle sue amichette non si sono ancora fatti vivi.” Concluse con un’alzatina di spalle che poneva fine alla questione.
“Tanto basta, mi inchino alla sua logica inappuntabile. Intendo chiederle dell’altro, una cortesia, ma non oso...”
“Chi non osa non sposa professore.”
“E sia, desidero dare un’occhiatina alla biblioteca. Mi propongo di trovarvi quanto serve per smascherare quel capoccione ruzzolato sulle nostre esistenze senza che si ritenga opportuno pretenderne la ragione.” Annuì risoluto poggiando entrambe le mani sul tavolo.
“Non si crucci.” Lo invitò la bidella, sbandierando alcuni scontrini della lotteria nazionale recuperati dal fondo di un cassetto. “Due ambi usciti sulla stessa ruota, estratti uno appresso all’altro. Prima certe cose non accadevano! Quella testolina appesa porta bene, glielo dico io.” Assicurò riponendo con cura i talloncini miracolati.
“Ad ogni modo si accomodi ma presti attenzione, la preside o meglio la dirigente scolastica è in allerta. Vigila!”
“Vigila?”
“Sempre e ovunque...”
“Perbacco Eleonora, così m’impaurisce. Sarò costretto a strisciare nei meandri della scuola, tale e quale a Teseo nel labirinto di Cnosso.” Nemmeno il tempo di terminare che lo colse alle spalle, apparsa dal nulla, proprio la dirigente scolastica.
“Montecricchi, lei si mantiene un giovanotto! Il suo abito, questa smania per le chiacchere da corridoio... è in tutto quello di allora.” Lo apostrofò trascinandolo in parte. “Deve sapere che mi trovo a fronteggiare una defezione peggio che Gli ammutinati del Bounty, e il corso di storia antica mi è rimasto scoperto! Colpa di quell’affare che ruba la scena al sole e a me gli insegnanti. Li strega capisce e quelli disertano fiduciosi, andati Montecricchi, attirati come le mosche al miele.” Denunciò ghermendo la sua tazzina. “Ad ogni modo lei è qui ed io la invito a trattenersi, il passato è passato e lo stato di necessità prevale anche sulle condotte poco morali. Si farà un’eccezione, e se crede domattina potrà presentarsi in aula”. Concluse sospirosa e magnanima.
“Lo credo, lo desidero, lo voglio!” Spiccò il professore, petto in fuori e tacchi giunti, sull’attenti.
“Allora è deciso la reintegro, ma badi che la tengo d’occhio.”
“Lo so, lei vigila…”
“Ben detto Montecricchi vedo che non ha perso il suo acume, io vigilo e lei riga diritto!” Terminò punto, svanendo nella penombra nella quale s’era manifestata.
“Rigare diritto”, Ragionò il professore mentre scendeva a due a due i gradini dell’istituto, leggiadro quanto un ragazzino al primo giorno di scuola. Stranamente anche la riga tra cielo e terra che era stata diritta, fintantoché quella grossa capoccia invadente non l’aveva spezzata, si mostrava ora riparata e per un attimo gli parve di cogliervi un qualcosa, un riflesso, un ammiccare che, se fosse stato possibile, si sarebbe creduto una strizzatina d’occhio.
“Professore, Professor Montecricchi”. Intese chiamare la zelante Eleonora dal sommo dello scalone, stagliata dentro l’oro e il fuoco del tramonto. “Non se ne vada, è stato riabilitato. Ergo ha nuovamente diritto al suo caffè!”
“Prima certe cose non accadevano...” Bofonchiò questi, lasciandosi andare a una pasciuta risata liberatoria.
Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis.
(Cicerone, De Oratore, II, 9, 36)
Silvia rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, e tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi?...
Io gli studi leggiadri talor lasciando le sudate carte, ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte, d’in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suon della tua voce,...
(Foscolo, Canti, A Silvia)
Mens sana in corpore sano
(Giovenale, Satire)
Quando, stagliate dentro l’oro e il fuoco,
le paranzelle in una riga lunga
dondolano sul mar liscio di lacca.
(Pascoli, Myricae, Ricordi VIII, I puffini dell’Adriatico)

Febbraio 2023
Variazione IV
Il senzatetto

Marzo 2023
Variazione V
Il lungodegente
Due piedi appaiati, divaricati quel tanto da formare una V.
Intendiamoci, non una di quelle gloriosamente esibite ad ogni agognata vittoria, piuttosto una V anatomica, imposta ai corpi distesi dalla naturale conformazione degli arti inferiori. Ad ogni modo quei piedi smagriti e pietrificati, che facevano capolino dal lembo inferiore delle lenzuola, appartenevano senz’altro a Giacomo, il giardiniere di Palazzo Traversi. Questi era intento a fissarli senza che gli fosse concesso di muoverli, nemmeno un pochetto, né avanti, né indietro, e neppure ai lati di quello strano giaciglio, una lettiga ospedaliera in metallo smaltato di bianco, spartana e robusta quanto un carro da pietra, sulla quale ogni parte del corpo premeva fortemente. La gravità dell’intera stanza, per qualche causa a lui ignota, vi si era d’un tratto raccolta, una forza negativa di tale portata che anche l’intelletto ne risultava costretto, forzato fino al punto da ritorcere su sé stesso.
A lungo, in preda a bizzarre visioni che si rinnovavano variando ogni volta in qualche aspetto, credette di aver smarrito il senno, fintantoché queste si fecero via via più stabili e invariate. Così, trascorso un tempo dilatato all’infinito, spossato e senza che gli riuscisse di distogliere lo sguardo dalle sue estremità, Giovanni riebbe in parte coscienza.
Inizialmente, si figurò ancora imprigionato al centro di quella enorme sfera, cresciuta a dismisura nel cielo autunnale un tanto al di sopra dei giardini affidati alle sue cure. Stranamente, dal profondo di quella entità, per antico sortilegio o novissima scienza, gli era consentito cogliere gli umori, le manifestazioni autentiche, veritiere, di quanti costituivano il parco.
Ecco allora gli alberi frondosi lamentare, con rochi echi persistenti, l’immane fatica a mantenere aperte le braccia, lo sforzo di reggere quelle ramificazioni ancora e ancora accresciute, sopraffatti dall’ eccessivo fogliame, dagli innumerabili frutti pendenti, maturi e sugosi, dagli stalattitici ghiacci colanti e spesse coltri di nevi.
Dal basso risalire graffiante il chiacchiericcio delle stradelle ghiaiose, mortificate dal calpestio degli innumerabili passeggiatori, sedotti dalla quiete e dalla frescura degli ombrosi camminamenti.
Ridosso la cinta, i roseti, prodighi di spinosa bellezza, si dichiaravano stomacati dai loro stessi sentori, troppo intensi e persistenti, moltiplicati a primavera.
Dintorno, ondeggianti distese d’erbe angosciate, periodicamente sfalciate, invocavano la dea siccità, unica in grado di opporsi al castigo della mezza luna affilata.
Nel mezzo, discinte fontane antropomorfe zampillanti acque torbide e sconce, lamentavano, con turpe scroscio, la meschinità dei vestimenti.
Persino dalle conche colme d’acque stagnanti, tristi dimore del principe del limo in attesa di un bacio liberatore, giungevano brumose istanze di risanamento e chiarificazione.
Ad un tratto, fugato il torpore e respinti quei pensieri bislacchi, riuscì a Giovanni di ritrarre i piedi e torcere il viso, finendo per scorgere dalla vetrata posta alla sua sinistra, ancora la medesima sagoma, quella sfera gigante che rabbuiava il cielo delle sue allucinazioni d’ammalato che, dopo averlo fagocitato, pareva del tutto restia a dissolversi come ci si aspetta da un sogno dopo essere stato sognato.
Distolto lo sguardo, gli occhi del giardiniere si posarono su di un tramezzo, sul lato opposto dello stanzone, interrotto da una porta crosta e impraticabile poiché sbarrata da un tavolinetto in formica , ingombro di incartamenti, più adatto ad un cucinotto di casa che ad una clinica. Questi per la posizione insolita e l’insolita fattura, rimandava un’idea di precarietà, smentita da quattro solchi d’usura lì dove poggiavano le gambe. Su di un lato, acquattato tra pile di cartelle sbilenche, stava un tale, un medico, che annotava certe cose su di un registro.
“Dunque s’è riavuto e ora si chiederà che ci facciamo, io e lei, in questa stanza.” Esordì questi di sottecchi. “Gliela metto giù spiccia, è stato inghiottito da quella vescica gonfia e fluttuante, che non l’ha digerita, anzi l’ha rigettata. Proprio così, non era di suo gradimento.” Spiegò scostandosi di un poco dal muro di scartoffie. “Tenente Gandini, ufficiale medico, incaricato di raccogliere le informazioni del caso. Lei, caro mio, è oggetto di studio, ha creduto di esplorare la bolla lì fuori e ora quelli vogliono sapere, si aspettano delle novità, dei fuochi d’artificio. Traversi, lei ora è proprietà dello stato!” Tagliò corto indicando che intorno ogni cosa lo era.
“Ha parlato nel sonno, lo sa? Un fiume in piena, da non riuscire a starle dietro.” Lo informò rovistando tra le cartellette. “Per lo più si tratta di deliri senza capo né coda: Alberi sfiancati, vialetti mortificati, pudiche fontanelle ed altre simili assurdità. I tranquillanti l’hanno stordita e il subconscio ha reagito scompigliando ogni pensiero logico, tutta robaccia inutile all’indagine in corso.” Una pausa , breve, per riordinare le idee. “Ciononostante, qualcheduno apprezzerà questi spropositi. Fioccheranno dibattiti e pubblicazioni, si aprirà una nuova via. Santo cielo si rende conto che le versioni più bislacche sono quelle più pericolose? Lei semina, altri raccolgono e le sue fantasie di ammalato assurgono a dogma, accolte come cura prodigiosa per ogni manchevolezza del genere umano.” Gli si fece addosso: “Ebbene, caro il mio giardiniere, questi sproloqui sono quelli giusti, glielo dico io, sconclusionati a sufficienza per alimentare seduta stante un’ideologia, un culto, una qualche ragione di vita. Si moltiplicheranno i seguaci, quegli sguardi beati, quelle tiepide argomentazioni, sempre le stesse, ed io...io non li potrò curare.” Concluse aggrappandosi al tavolino, la cui formica da due soldi tastava come un prezioso talismano.
Da lì a poco si fece avanti una donnetta dal passo breve e i capelli crespi, trattenuti a malapena da una cuffietta di quelle ad aureola, che ristette in attesa d’essere comandata.
“Animo Teresa, governi il paziente, tenterò un prelievo.”
“Un prelievo? Dovrà raccontare a lungo? Si informò premurosa l’infermiera .
“A fondo e a lungo. Abbiamo a che fare con un sognatore, di quelli che riferiscono con dovizia di particolari ma non sono capaci a discernere il vero dal falso. Sarà necessario insistere, ricorrere a domande particolari, astuzie, per cavarne qualche cosa di buono...” frenò l'impeto per la troppa confidenza, “animo, si accerti che il paziente assuma una posizione funzionale al prelievo, che bocca e lingua non impastino, altrimenti ingarbuglierà le parole e si dovrà ripetere.”
La crocerossina, inaspettatamente forte, fece leva sulla schiena del ricoverato: “A testa alta è tutta un’altra cosa, ne conviene? Potrà raccontare senza inciampi. Tratti un argomento per volta, pause brevi, respiri profondi e tutto filerà liscio.” Lo istruì carezzevole fino a che un cenno le intimò di ritirarsi.
“Ebbene, quando l’ha vista la prima volta?” Lo interrogò il medico.
“Ieri l’altro, mentre potavo delle peonie, una varietà giapponese, selvatica e resistente. Era piovuto e tirava un’arietta pizzichina quando…(d’un tratto il ricordo s’era concretato e la fragranza di quei grossi petali bianchi e porpora irruppe nello stanzone) …quando mi sono chinato su di un fiore, una bocca di leone insolitamente grande, grande quanto il pugnetto di un neonato, che cresceva a vista d’occhio. Poi ad un tratto patapam! M’ha inghiottito.”
“Patapam! ...inghiottito!” Gli fece eco il dottore, spiccando un bel punto sul foglio.
“Dopodiché?”
“Beh, dopo mi sono risvegliato alleggerito, sgravato nel corpo e nella mente a qualche diecina di metri sopra il parco. Immagini l’eternità: il tempo scorre, il tempo si ferma, non conta il tempo. Intrecciato in una sorta di intesa, un legame. ”
“Intende che si trovava in qualche modo costretto, legato?”
“Legato? E perché mai? Ci sarei rimasto a lungo in quel bozzolo...ero felice.”
“Felice? Ho i miei dubbi, capita a tutti di provare dell’euforia, dell’eccitamento, talora una spensierata gaiezza, ma la felicità è ben altro. La felicità si coltiva, caro giardiniere, alla stregua dell’orticello di casa, cosa credeva?
“Si avvicini.” Lo pregò Giacomo con un filo di voce. “Glielo ridico, io ero felice, felice come mai prima.”
Un altro caso di quelli..., farfugliò il militare rizzandosi di scatto. “Andiamo, non punti i piedi, si affidi a chi ne capisce e vedrà che estrarremo il vero.” Richiuse la cartelletta gettandola nel mucchio per pescarne un’altra, identica.
“Stabilito che lei era contento e nulla più, ora chiariamo per quale ragione lo era. Immagino che dominare i giardini dall’alto, le stradette, gli alberelli e quant’altro, rimpiccioliti tanto da stringerli in pugno, le abbia dato alla testa, si è creduto onnipotente. Dico bene?”
“No, non si tratta di questo, come potrei. Onnipotente? Dio mi guardi dal pensarlo. Gioivo poiché reso d’un tratto partecipe dei segreti del parco, per la novità.”
Si fece attento: “Segreti? Quali segreti?”
“Si fa per dire, mi riferisco a tutto ciò che accade laggiù ogni qualvolta una sua parte interagisce, partecipa e soffre.”
“Ah, dunque i sassi soffrono? I prati anch’essi soffrono? Lo crede per davvero? Nemmeno uno gioisce?
“Non di quella gioia inconsistente che scivola tra le dita, quel sentire tipicamente umano intendo. Essi traggono piacere dal lamentio, da quella litania che mi risuona tuttora nelle orecchie. Pregano insieme e auspicano lo si faccia anche noi.” Affermò con accento liturgico.
“Pregano? E chi? Il Padreterno?”
“No, no di certo, loro celebrano le stagioni, gli elementi, tutto ciò che conta per davvero. Sanno quel che fanno.”
“Accidempoli, un altro filosofo che semina dubbi per mietere incertezze. Traversi, si attenga ai fatti, riferisca lo stretto necessario elencando in bell’ordine le rimostranze del parco dimodoché le si possa annotare, nient’altro.” Lo ammonì conciso.
“Se la mette così... di fatto si lamentano dell’uso smodato, delle fatiche, dei ricorrenti soprusi, di tutto ciò che a cui noi non si presta attenzione.”
“O bella lei vorrebbe farmi intendere che d’ora in poi a passeggio si darà ascolto ai sassolini? Alle erbette? Costretti ogni due per tre a chiedere compermesso?
“Non guasterebbe.”
"E quella smisurata bocca di leone levitata in barba alle leggi di gravità? Anch’essa avverte un tale brusio?" Domandò scettico.
“Sicuro, e se ne rattrista.”
“Scosse il capo rivolgendosi all’infermiera: “Teresa l’ammalato necessita di un ulteriore trattamento, il prelievo non è riuscito. Il sogno ha prevalso.”
Si accostò alla lettiga picchiettando una siringa dal cui ago sgocciolava un intruglio viscoso.
“Lo tenga stretto, la verità stenta ma prima o poi tutti si adeguano e accolgono il vero, è solo questione di tempo. Dormirà a lungo e al risveglio potremo ritentare.”
A Giacomo, giardiniere di palazzo Traversi, i piedi pietrificati e lo sguardo ancorato all’abnorme bacillo, i lamenti del parco giungevano ora più fiochi, tentò un’ ultima vana resistenza prima di perdersi nella notte e nella nebbia.

Aprile 2023
Variazione VI
Il giudice
Il giudice s’era pronunciato e l’entità pendente sulla coscienza di ogni rispettabile cittadino, infine condannata. Ora spettava alle forze dell’ordine adoperarsi per restaurare la legalità a lungo disattesa.
All’ingresso del tribunale i cineoperatori, i cronisti e un crocchio di esaltati, impazzavano in attesa delle sue dichiarazioni. Un groviglio di braccia microfonate e magliette multicolori, un’agitazione, un ingorgo di umanità all’ammasso dalla quale il giudice un tempo avrebbe tratto piacere, l’ego di allora sguazzava in quella baraonda, si crogiolava nell'affrontare a muso duro cronisti e manifestanti, capace com’era di placarne gli animi trasformando il malcontento in aspettativa. Ma ora quei colli protesi, quegli sguardi accesi, le grida, il suo nome macchinalmente ripetuto lo infastidivano, incapace ad opporsi a quella moltitudine quanto a quell’essere materializzatosi d’un tratto tra cielo e terra e apparentemente sordo ad ogni richiamo.
La notte si destava impaurito, il respiro rotto da tormentati sogni oppressivi, che lo accompagnavano esangue e tremolante oltre la soglia del giorno, la cui luce non gli recava sollievo. Andava così radicandosi in lui un desiderio unico, quello di ritirarsi in luoghi solitari e poco accessibili, colmi di inanimati silenzi.
L’insofferenza si era manifestata tale dopo il caso di via Torre Bianca, un fatterello non tanto grave da giustificare il cambiamento. Nella sartoria al primo piano del civico 22, una ripicca tra lavoranti era scivolata in zuffa seguita da reciproche accuse. Per i due sartucoli, ascoltati e in breve riappacificati, era finita lì. Non per il giudice.
Da allora egli era solito sfuggire la calca, il trambusto e tutto ciò che stranamente gli recava malessere. Nello studiolo se ne stava perlopiù in piedi, addossato al davanzale la cui finestra s'apriva alla piazza, le tendine appena scostate, a osservare piccioni e passanti rincorrersi senza regola, in ondate, file compatte, file allungate, gruppetti che si ingrassavano fino a divenire veri e propri gruppi, e gruppi che a poco a poco si sgretolavano franando in ogni direzione, ognuno per sé. Tutta l’umanità di sotto e lui sopra, ridosso quei vetri spessi, preoccupato che qualcuno di quelli, un uomo, non un piccione s’intende, potesse essere scortato al suo cospetto per essere giudicato.
Allo scrittoio ristagnava inutile, poggiato su crescenti pile di atti, incapace ad agire, costantemente roso dal dubbio, smarrito in quella palude brumosa che impantana le coscienze di coloro che d’un tratto, senza apparente motivo, smettono di fare senza troppo pensare e cominciano a pensare senza più esser capaci a fare.
Il fatto è che in quella sartoria vi era già stato, erano trascorsi molti anni allorché, condottovi dal padre, ne aveva varcata la soglia per misurare il suo primo cappotto, imbastito, come usava allora, rivoltando la stoffa di un altro.
Quella volta li accolse il sarto, avvolto in un’ampia giacchetta impolverata di gesso, dalla quale facevano capolino, in ordine sparso, le capocchie di numerosi spilli che dovevano aver dato battaglia.
“Carissimo Colonnello questo è suo figlio.” Esordì questi. “Non può essere altrimenti, il profilo delle spalle, il girovita, anche l'interno gamba sono delle vostre, di famiglia intendo, ho l’occhio avvezzo, occhio da sarto potremmo dire, oramai distinguo le persone da certi tratti, capisce.” Proseguì soppesando il giovanotto, alla ricerca di una minima sproporzione da pareggiare al bisogno con una piega di tessuto in più o in meno.
“Bene, bene”, borbottò sfregando le mani senza lasciare intendere di che genere di bene sì trattava, “che ci volete fare, in questo mestiere si finisce per dubitare di tutto tranne che del portamento. Proprio così, il portamento è quel che conta!” Esclamò come avesse appena enunciato la più solida delle verità, “la figura è mutevole, la bellezza discutibile, ma il portamento, caro il mio Colonnello, non lo si può camuffare!” Completò certo.
“Se lo dite voi, che dell’apparenza ne fate mestiere, non posso che concordare, e poi si vede che conoscete il fatto vostro e che l’occhio da sarto lo avete istruito a dovere,” replicò il Colonnello a riposo liberandosi di guanti e cappello, “Lorenzo infatti è mio figlio, un giovanotto dai tratti acerbi, che affido alla vostra maestria, affinché lo vestiate per il ballo dell’accademia.” Attese un istante prima di proseguire, indaffarato com’era nel porgere al sarto una palandrana di quel verde pastoso che incupisce il mare che annuncia burrasca.
“Tenete, ricavatene un cappotto di quelli che piacciono alle signorine, che fanno girare la testa, innamorare insomma.” E mimò, con l’indice all’insù, qualche testa che si sarebbe dovuta far girare. “Questa palandrana mi è stata donata da un principe quando prestavo servizio al reggimento, un principe tartaro, lui ed io si era stretta amicizia, amicizia da caserma, che ha un peso diverso dalle altre, più solida, più rude. Insieme senza rango e senza credo si diceva allora. D’altronde, capirà bene che quando si carica a briglie sciolte, menando fendenti a destra e a manca, è ben altro ciò che conta.” Lo educò brandendo il bastone da passeggio. “Perdonatemi la nostalgia per quei tempi gravi, spietati se vogliamo, ma degni, degni e ordinati. Allora, s’era fieri di stare di qua o di là, fedeli alla patria e a Dio, senza certi intrighi, certe carnascialate che oggi, oggi...” balbettò incerto, come se quel cumulo di trite parole, fosse rovinato su quei tempi degni e ordinati mettendo tutto a soqquadro. “A dirla tutta si eseguiva senza riflettere. Allora non si dava peso a certe cose e la ragione stava inevitabilmente dalla nostra parte, cucita su misura potremmo dire. E poi s’era giovani e i giovani non ammettono il torto, con quel furore che brucia in corpo vorrei vedere altrimenti.... Bah, non intendo farvi perdere altro tempo.” Disse rinfoderando il bastone.
“Piuttosto, ditemi, del tessuto così ne avete mai veduto?” Chiese alludendo alla palandrana, sicuro che non fosse possibile.
Il sarto esaminava e annuiva: “Lo ammetto, una splendida trama, una lana di seta. La lana ripara dal freddo e la seta dona lucentezza e un elegante drappeggio, pecora e baco stretti in un abbraccio sontuoso. Un intreccio degno di un principe, tessuto da mani abili, oramai perdute.”
“Non potevate dir meglio, ora però da questa stoffa ricavatene un cappotto speciale, per il mio figliolo, diverso da quelli che indossiamo io e lei che da vecchi si bada unicamente alla comodità. Al contrario questo dovrà stringere quel tanto da obbligare una postura marziale. - Le comodità fiaccano e i vizi conservano! - Lo ripeteva il mio comandante, il generale Rauterkell, prima di coricarsi con gli stivali e il cognac appresso.”
“Parole sante Colonello, parole sante, Rauterkell in fatto di stravizi non era secondo a nessuno. Che Dio lo abbia in gloria.” Confermò il sarto sollevando quattro sbuffi di gesso segnandosi la croce. “Un cliente come pochi, fazzoletti a dozzine, tre camicie per volta. E le giubbe? Ognuna con la tasca interna a fiaschetta, per il Napoleon capisce.” Ironizzò gesticolante, con la mano ad ampolla.
“Ne parla come..., non sarà mica…?”
“Crepato? Eccome, di cirrosi. Il fegato ridotto a un budino. Alle volte mi chiedo se il suo apprezzamento per la vita sregolata e quel suo motto gagliardo, alla luce dei fatti, non debbano essere riconsiderati.”
“Andiamo mio buon amico, non sia intransigente, gli si farebbe un torto. Riconosciamo piuttosto alle argomentazioni del Generale una ragionevolezza ridotta, acconsentendo a che gli eccessi conservino, ma solo in parte, concedendo poi alle comodità una qualche valenza terapeutica.”
“Colonnello, altro che cariche al galoppo, lei è un diplomatico con i controfiocchi, mi creda ha sbagliato carriera.” Affermò scortandolo in sala. “Ad ogni modo si accomodi, cucirò per suo figlio un cappotto alla francese, come usano i giovani. Un capo alla moda ma senza rigettare i canoni classici che temperano il carattere e raddrizzano la postura. Il suo figliolo se lo può già figurare elegante e impettito quanto un cadetto di cavalleria.” Simulò con il petto in fuori, tronfio, fino a ché un lieve sentimento di colpa non lo rifece omicciolo: “Negli ultimi tempi mi trovo costretto, per ragioni di guadagno, capisce, a vestire giovinetti amanti dei taschini a soffietto. Di questo passo non so dove andremo a finire.”
Il colonnello fece spallucce sorridendo appena: “Non si crucci, ogni generazione ha le proprie stravaganze, se quei soffietti piacciono ai giovanotti ed alle signorine che li accompagnano è doveroso adeguarsi. Omnia mutantur. Tutto cambia.”
L’altro sospirò arrendevole mentre sfilava il metro da intorno il collo: “Non ha torto, gli anni passano e da qualche tempo le novità mi irritano quanto le foglie d’ortica.” Ammise, chiamando a sé Lorenzo: “Avvicinati figliolo e tendi le braccia, immobile, occorrono misure precise, il cappotto è come l'amante, deve calzare a pennello altrimenti sono denari gettati al vento.”
Questo rammentava Lorenzo riguardo suo padre e quell’omuncolo impolverato. Rimettere piede in quel luogo aveva suscitato in lui un’emozione inattesa, e ora ne pativa le conseguenze, si figurava continuamente quel cappotto rovesciato, splendido fuori e consumato dentro al quale sentiva di somigliare. Perciò stentava apparire in pubblico, presentarsi innanzi a coloro i quali, ignari della sua ambiguità, ne lodavano le nobili intenzioni e gli equilibrati convincimenti. Ciò nonostante ugualmente raggiunse i cronisti.
“Giudice quale reato ha commesso? Quali le ragioni della condanna? L’imputata tramava, ordiva nuove malefatte?”
Tacque, vagando altrove, alla ricerca delle parole appropriate.
“L’imputata non si è macchiata di alcun crimine.” Precisò con la toga floscia sull’avambraccio. “Nemmeno una prova, alcun testimone, nessuna dichiarata intenzione. Dà che è sorta non ha recato alcun danno.”
“Quindi è stata prosciolta? Com’è possibile? Eppure, l’abbiamo vista tutti trattenere certi sguardi come una poco di buono, ammaliare!” Recriminò la più anziana delle croniste infastidita dall’idea di una possibile assoluzione.
Il giudice replicò, quasi sulla difensiva: “Si sbaglia, si è fatto quanto si doveva e l’imputata è stata condannata. D’altronde non era pensabile agire altrimenti.”
“Ma se non ha delitto, per quale ragione la si è punita?” Chiese il più giovane dei cronisti infastidito dall’idea di una possibile ingiustizia.
La risposta richiese dell'impeto, per soverchiare il chiasso: “Signori! signori! L’abilità di mascherare la propria indole è pratica antica di manigoldi e ciarlatani, avvisaglia di qualche cattiva intenzione. Perciò, assodato che l’imputata impiega l’abbaglio per celare il suo stato interiore, s’è deciso di scortarla alla frontiera del regno e lì confinarla, fintantoché non sveli la propria natura.”
“Lo si sapeva, lo si diceva. Non era ciò che sembrava!” Dichiararono alcuni tra quelli pratici di tutto un po'.
“Come darvi torto? Questa splendida creatura ha l’animo usurato alla stregua di un cappotto rivoltato.” Ammise contrariato poichè costretto ad ammettere le stesse ragioni.
Alla luce dei fatti, neppure uno tra i presenti ritenne opportuno commentare. Perciò, da lì a poco, alla baraonda seguitò un inconsueto silenzio, denso e viscoso quanto il catrame, attraversato dal giudice intento a braccare due o tre piccioni, gli unici rimasti a guardia del piazzale. Imprigionati questi in un cantuccio, si trovò di faccia a una targa, lasciata da qualcheduno a ingrigire nell’ombra, al centro una frasetta incisa nella lingua franca di un tempo:
PLUS ÊTRE
QUE
PARAITRE
“Più essere che apparire”, biascicò sconcertato, intanto che i piccioni scartavano e spiccavano il volo.

Novembre 2023
Variazione VII
Il vacanziere
Dal balcone al terzo piano della “Pensione al mare”, Arturo, destatosi prima del solito, guardava le dighe frangimare ripetersi indistinguibili, via via più lontane e più piccine, un gioco di immagini riflesse di specchio in specchio.
La prima diga, la più grande, si trovava lì sotto, poco scostata dall’alberghetto, anch’essa, come le altre, lambita in punta da spume biancheggianti che, rotte dallo scoglio, si quietavano lisciandosi in flutti densi e pigri la cui inerzia sfumava sulla battigia senza intaccare le lievi pendenze sabbiose. Nel mezzo di questa stava una suoretta, la veste ampia, lunga, grigia, che pareva aver messo radici. Si sarebbe creduta di pietra non fosse stato per il velo, di un bianco candido, e il soggolo nero di pece, che le contornavano il volto restituendole parvenze umane.
Ella era giunta poco prima dell’alba, a piccoli passi, cadenzati, segnando appena la sabbia bagnata di luna. Arturo, incantato dall’albeggio imminente e dalle ipnotiche fila di ombrelloni, allora non l’aveva badata. Ma la sua inoperosità, che tanto osteggiava la viva costruzione del giorno, e il suo sguardo, ostinatamente rivolto ad est per cogliere chissà quale faccenda, ora ne avevano catturata l’attenzione. In fondo rammentava di averla veduta anche la mattina innanzi, e forse ogni mattina da quando era venuto al mare.
“Quella donnina e la sua triste sottana, hanno guastato l’incanto della prima luce del giorno”. La accusò mentre sgranchiva le ossa. Infastidito, non capiva la ragione di tale ostinata presenza. “Se crede che qualcheduno lassù si prenderà la briga di renderle grazia è meglio che si armi di santa pazienza. Aspetta e spera sorella, aspetta e spera fino a sera.” Sciolse in rima sporgendosi per poterla osservare più da vicino.
E tese l’orecchio, pronto a cogliere qualche indizio, una minima paroletta, ma non ne ricavò alcunché. Solamente gli parve che l’innocuo sbatacchio del mare, quell’annoso borbottio inconcludente, si fosse d’un tratto tradotto in lamento. Lo sbuffo del vento, lo sciacquio dell’onda, i gabbiani avidi in volo, ogni scompagnata energia nei dintorni partecipava a quel sottofondo, segno che l’addietro, qualche cosa stava nascendo e non si trattava certo del sole.
Parzialmente proteso oltre il parapetto, intravvide una seconda monaca, dietro la quale, pur senza raggiungerla, si affannava un omuncolo, che pareva occupatissimo a non tardare a chissà quale grandioso accadimento. Mentre la suora risaliva la diga accostandosi alla consorella, questi dispose in gran fretta una tela su di un cavalletto da campagna e impugnò il pennello presentandolo, per la misura della proporzione, verso quel punto dell’orizzonte che catturava l’attenzione delle religiose.
Arturo, dall'alto di quel balconcino, non era in grado, nemmeno sporgendosi oltre il consentito, di scorgere ciò che accadeva in quella direzione. E non si dava pace poiché avvertiva il rischio che questo fatto potesse diradare, evaporare per il gran caldo. Mischiato tra la folla di bagnanti, distorto dal chiasso dei venditori ambulanti, sopraffatto dalle tinte smargiasse dei casotti dei guardaspiaggia.
Ma tutto questo sentire era privo di corpo, perciò, affidandosi alla ragione, in breve gli riuscì trattenerlo. “Sto fantasticando”, ragionò risoluto. “Non c’è nulla laggiù. Quelli guardano le solite cose, le stesse di sempre, solamente gli paiono straordinarie. Si fanno imbrogliare dall’emozione. L’emozione se non la domini prende il sopravvento e ti scompiglia l’intelletto, finisce che ti ingarbugli e confondi l’alba per il tramonto. Che sciocco a immaginare chissà quale mistero. Uno sciocco, questo sono.”
Nel frattempo, le ombre slanciate degli ombrelloni serrati si rassodavano. Arturo fece per rientrare nella stanzetta che lo ospitava, un lettuccio e uno scrittoio dei tempi andati, allorché dei gridolini risalirono da basso fino al terrazzo. Un gruppetto, una famigliola allungata in una sorta di fila indiana, dalla quale spuntavano le estremità dei lettini e delle sdraio d’ordinanza, s’era riversata sul viottolo d’ingresso agli stabilimenti. Superata l’estremità dell’edificio, la carovana balneare zittì all’istante. I genitori e i figlioletti ruotarono il capo verso est, come girasoli in un campo, marciando allineati fino agli scogli sui quali ristettero in attesa. Unicamente il più piccolo della combriccola, che trascinava caparbiamente un materassino sbiadito, uscì dai ranghi e tese il braccio per indicare, senza che gli riuscisse di abbassarlo.
Arturo, ancorché in largo anticipo per la prima colazione, che non consumava mai prima delle sette e quarantacinque, stabilì un’eccezione. Reputava di malo auspicio variare le proprie abitudini, ciononostante ritenne giunto il momento di scendere per sedare quella isteria collettiva che andava montando. Indossato frettolosamente l’abito in lino, tralasciando nella foga di infilare la cinta, fece per uscire. Credette di uscire. Tentò a più riprese di uscire da quella stanzetta della pensione al mare con balconcino, che occupava ogni estate da quando portava i calzoncini alle ginocchia. Ma la porta, chiusa a doppia mandata, non apriva.
“Di certo da qui non si passa.” Constatò. E gli parve normale. “Questo è quel che accade ogniqualvolta non si rispettano le abitudini. L'abitudine è l'abitudine, e nessun uomo può buttarla dalla finestra... altrimenti ci si espone a delle sgradevoli novità.” Asserì sedendosi al bordo del letto, in paziente attesa dell’ora giusta. Ma ai tre quarti, ora stabilita per la prima colazione, e nemmeno dopo, alle otto in punto, gli riuscì di varcare quella porta che pareva murata.
“Accidenti a quella bigia donnina. È lei che ha scatenato tutto questo.” La accusò spazientito misurando passo passo il terrazzino che gli appariva insolitamente angusto.
Frattanto la diga s’era gremita all’inverosimile. Tutte le specie di bagnanti, che si accalcano sotto la canicola nei mesi più caldi dell’anno, attendevano raggruppate sulle rocce. Dall’alto l’idea era quella di un brulicante convoglio ferroviario, rigonfio di genti, pigiate sui tetti e sui predellini, come quelli in transito sui binari a scartamento ridotto di alcuni paesi lontani.
“Diamine, non se mai vista una tale baraonda.” Sbottò Arturo che le provò tutte per raggiungere lo spigolo dello stabile e conquistarsi un briciolo di veduta. Stava per desistere quando da una finestra al piano di sotto comparvero due teste.
“Ehilà”, provò a richiamare la loro attenzione. “Ehi, dico a voi. Cosa accade? Di che si tratta?”
“Come dite? Non sapete? Per davvero? Buon uomo siete l’unico a non...” Esterrefatti i due presero a rimbeccarsi senza più badarlo.
“Signori abbiate la compiacenza di ascoltarmi: La porta è bloccata. Mi trovo temporaneamente confinato e non mi spiego questo disordine, queste stramberie. Vedete pure anche voi quegli assembramenti sulla diga, quegli sventurati comportarsi come la limatura quando s’agita una calamita. Tutti orientati verso un unico polo.” Lamentò angosciato. “Siate buoni e spiegatemi cosa si cela la dietro ho finirò per ammattire.”
“Caro il nostro vileggiante, lei è un gran birbone, un attore sopraffino. È quasi riuscito ad abbindolarci, ma è impossibile che non sappia.” Gli si rivolsero divertiti. “Ora scenda, andremo insieme, e non si dilunghi con questa farsa altrimenti ci perderemo la parte migliore della...” Non poterono terminare la frase che un pallido bagliore, di fuochi d’artificio, investì la folla accompagnato da folate di vento odoroso, mentre i due si ritiravano in gran fretta, sbattendo le ante della finestra. In lontananza le sirene delle forze dell’ordine si accordavano con le note festose della fanfara cittadina.
Arturo, esasperato, decise di calarsi lungo la grondaia, risoluto a giocarsi il tutto per tutto. Un respiro e già i piedi brancolavano nel vuoto in cerca di un primo appoggio.
“Buon uomo, spero abbiate un valido motivo per affrontare una discesa tanto spericolata.” A parlare era stato un nonnetto seduto su una panchetta, immerso nella frescura di un rosaio fiorito. “Un tempo si preferivano le scale, tutt’al più l’ascensore. D’altronde oggi la fretta impera. Non ha pensato a un gran salto? Guadagnerebbe più tempo, si capisce.” Stabilì questi arricciandosi i baffi.
Sbigottito, l’acrobata improvvisato interruppe l’evoluzione per obiettare: “Facile sbeffeggiare chi è costretto, imprigionato. Lei può fare ciò che crede. Io no. Si metta nei miei panni e capirà. Devo raggiungere quel cantone, non posso farne a meno.”
“Figuriamoci, io mettermi nei suoi panni...che sciocchezza. Potrei indossare anche il suo pigiama ma non capirei ugualmente per quale motivo “deve” guardare dietro l’angolo. Non le è sufficiente ciò che ha?
Dalla sua terrazza si apre un panorama come pochi. In molti pagherebbero oro per trovarsi al suo posto e lei rigetta tanta meraviglia. Rischia la pelle per chissà quale immondezza.” Sottolineò con uno sbuffo, annusando pigramente una rosa matura. “Spesso si è spinti a rincorrere questo e quello, senza peraltro godere né di questo né di quello. Non è inseguendo ogni novità che si guadagna la felicità. Il più delle volte questa germoglia tra i piedi e finisce che la si calpesta. Che vuole, la mia è sbocciata tra queste rose.” Indicò tirando a sé un rametto infiorito. Questi petali, sono speciali, piacevano alla buonanima di mia moglie. Quest’altri invece rilasciano un profumo seducente, lo stesso di certi balli, certe danze di quando in gioventù si amoreggiava in riva al mare.” Una pausa nella quale sembrò vagabondare lontano. “Giovanotto, presti attenzione a ciò che ha con sé, si renderà conto che possiede già quanto le serve. Mi dia ascolto e potrà aprire quella porta per scendere dalle scale, magari un gradino alla volta, senza farsi del male.” Concluse riprendendo a lisciarsi i baffi prima di allontanarsi con una rosa nel taschino
Arturo, l’adrenalina in circolo e il cuore in gola, sordo alle raccomandazioni del vecchio, riprese la discesa. Giunto a qualche metro da terra, allentò incautamente la presa e rovinò sul roseto. Lacerato dalle spine, insanguinato, si mise ugualmente in piedi, corse, incespicò e ricadde bocconi urtando la tela posta sul cavalletto da campagna. Con il sapore della terra sulle labbra tumefatte scorse, nel dipinto ancora fresco, e per questo più vivo, reale, qualcosa di inesprimibile. Una forma tondeggiante ma non del tutto circolare, modestamente rilucente, ritratta a mezzavia tra cielo e terra, dalla quale emanava una vibrazione attutita, un gemito, il medesimo che in precedenza egli aveva scambiato per il lamento del mare. Si voltò di scatto per poterla cogliere nella sua concretezza, ma oramai il nuovo giorno ne aveva rimossa ogni traccia.
Sulla spiaggia gli altoparlanti gracchiavano informando i villeggianti riguardo gli orari degli stabilimenti, la temperatura del mare e le consuete animazioni giornaliere. Molti scalciavano l’acqua dal bagnasciuga, altri si rincorrevano senza sosta sulla sabbia cocente, allorché Arturo incrociò la suoretta, la cui veste grigia pareva brillare. Anche il viso, soave e inaspettatamente bello, riluceva.
"Compermesso”, domandò la devota, poiché Arturo, attratto da tanta grazia, gli ostruiva il passaggio. “Siate gentile, scostatevi che devo rientrare. Al monastero gli orari sono sacri, non mi è concesso tardare. L’abitudine, la regola avvicinano al regno di Dio.” Lo educò e benevolmente comandò: “Domani alla prima luce verrete con me alla diga. Godremo insieme di tanta meraviglia…
“Meraviglia? Lo dite di quell’insipida entità?” Si stupì Arturo additando l’imperfetta forma ritratta.
“Entità? Quale entità? Questa è davvero bella.
“Le dighe figliolo. Domattina, come ogni mattina da quando siete venuto al mare, accoglieremo il giorno guardando le dighe frangimare ripetersi indistinguibili, via via più lontane e più piccine...”
L'abitudine è l'abitudine, e nessun uomo può buttarla dalla finestra;
semmai la si può persuadere a scendere dalle scale, un gradino alla volta.
( Mark Twain)
Non vi era nulla che potesse distoglierlo dalle sue pallide considerazioni che si susseguivano senza peso, rincorrendosi l’una all’altra.
Proprio così, Orazio Calabrache si abbandonava mollemente a tali fiacchi esercizi mentali allo stesso modo in cui giaceva, non privo di una certa eleganza, sulla poltrona di velluto scarlatto posta nell’ angolo del salottino di casa ove riceveva tutti i giorni tranne il giovedì, giornata destinata al riposo.
Questo galantuomo da boudoir godeva di quella corrotta capacità di trattenere ogni frivolezza, di attaccarsi morbosamente alle conversazioni meno assennate, nell’intento, era questo il suo vero impegno, di riformulare teorie apparentemente nuovissime ma in realtà logore e inconsistenti quanto e più di quelle originali, adatte solamente a mantenere la discussione e ravvivare le soirées.
Dopo il tramonto, le malattie del secolo, l’educazione dei figlioli, l’accettazione dei forestieri, l’operato del re e del suo gabinetto, criminalità e povertà, ognuno insomma dei grandi temi che gravano sui popoli, venivano discussi con la gaia leggiadria di una farfalla che si posa di fiore in fiore, dimodoché secoli di rigogliosi convincimenti inaridivano in un battito d’ali, stropicciati e ridotti a brandelli dalle boutades dei convenuti. Brandelli raccattati uno ad uno dal Calabrache che li ricuciva a casaccio, confezionando mirabolanti e sfacciati ragionamenti, sostenuti lì per lì da una quantità di espressioni fragorose, più adatte alle frottole che a descrivere il vero.
Null’altro che parole. Parole distribuite in ordine sparso, pensierini da poco, compitini elementari, scandite filastrocche capaci di obliare la mente già corrotta degli ospiti, questo è quanto si udiva ogni sera, salvo il giovedì, in quella casa e in molte del quartiere ed in altre ancora della città.
Accadeva che il seme di una scemenza, proferita a tinte smargiasse dal Calabrache, germogliasse nelle menti degli ospiti, radicandosi nel fertile humus dell’indolenza e della mediocrità, riproposto a più riprese, perfezionato, se possibile, nella sua inconsistenza. Mille e più futili affermazioni, pochezze che si concretavano in una fitta rete cittadina di corbellerie che andava allargandosi, e allargandosi sempre più, fintantoché all’orizzonte non comparve quella forma inattesa che, senza una vera fatica, ne disfece la trama e ridette il buon senso.
Ma andiamo per gradi. Il giorno stesso in cui comparve quell’oggetto sospeso nel cielo azzurrino, Orazio, sprofondato nella sua poltrona, elaborò in un batter d’occhio una singolare teoria, dopodiché chiamò il maggiordomo e fece recapitare gli inviti per una riunione chiarificatrice. Si trattava di un giovedì, ma questa volta si sarebbe fatta un’eccezione occorrendo di rassicurare e spiegare.
“Illustri concittadini, circolano le notizie più strampalate riguardo la sfarfallante intrusa, ma posso assicurarvi che nessuno ha ancora intuito la verità. Io, all'opposto, ho riflettuto, ho usato il cervello come Dio comanda e sono giunto a una conclusione de-fi-ni-ti-va che pone fine alla questione.” Esordì Orazio, dalla suo pulpito di velluto, i gomiti ben piantati sui braccioli, le dita incrociate e il fare di colui che ha appena rischiarato la notte.
“In primo luogo, confermo che gli scienziati, coloro che dettano legge su ciò che è giusto e ciò che non lo è, non sanno che pesci pigliare. Scontato. Loro palesano la necessità di raccogliere più informazioni, più dati da poter elaborare. Scontato. Insomma, questi “luminari”, asserviti ai protocolli, sono costretti ad esaminare e fare di conto, ritirandosi lungamente nei loro sciagurati templi, abbandonando la città nel panico. Mentre io, uno di voi, ho fatto uno più uno indovinando prontamente il carattere della nostra ospite.
Inutile dire che questi cialtroni votati al metodo ed asserviti alle regole, non mi credono e persistono nella loro sterile ricerca, senza capire. E non possono capire poiché la loro indagine è tarata alle fondamenta, non tiene conto dell’insieme, non prende in considerazione l’elemento principe dell’universo, quell’energia cosmica che permea ogni cosa.
Lo capite adesso come vanno le cose nel mondo della ricerca? Loro, gli “accademici” col berretto a punta e il lapis in mano, annegano in un mare di numeri, trascinati, sballottati in un turbinio di formule indecifrabili. Una marea di equazioni, logaritmi, derivate e integrali che annacquano la loro coscienza. Questi geni si attribuiscono il merito del progresso e di tutto ciò che v’è di buono al mondo, mentre con le loro fandonie, le loro sperimentazioni, ci fanno ammalare, ci fanno uscire pazzi, ci usano come topi in gabbia.
Cittadini, la scienza è un abbaglio, è necessario reagire e affrontare a viso aperto questi ciarlatani cresciuti gobbi nel corpo e nella mente, sempre intenti a corrompere ciò che è integro, diabolicamente attratti da quanto vi è d’oscuro e incomprensibile. Non li si capisce.”
“Non vi capiamo! Non vi crediamo!” Scandì il fornaio di Largo Panfili, che preparava le migliori pagnotte del quartiere e ogni fine settimana le proponeva ai quattro cereali, meno raffinate ma indicate per il controllo della glicemia.
“Non vi capiamo! Non vi crediamo!” Fecero eco gli altri , persuasi dall’oratoria del Calabrache e ancor più dal dolce sentore di pane appena sfornato.
“Signori miei, lo ridico una volta per tutte, questi uomini di scienza non sono capaci di risolvere e non sono in grado di curare. Non sono in grado, è un fatto.
“L’unica certezza è quella di essere certi di non sapere”, è il motto di questi mascalzoni. Lo vedete che la filosofia gli ha narcotizzato il cervello, che la matematica gli ha indurito il cuore, ed ora non sono più in grado di ragionare?
“Ciò che si vede esiste, quello che non si vede non esiste”, questo è il mio motto, ci provino a confutarlo, altro che incertezze! A nulla serve rimestare alla cieca, in profondità, correndo il rischio di stuzzicare il diavolo. Non fatelo.”
“Non stuzzicate il diavolo. Non fatelo.” Strillò atterrita la moglie del fabbro, organizzatrice di incontri per la promozione di contenitori multicolori adatti a tutti gli alimenti, anche liquidi. Unica della città in grado di riorganizzare un frigorifero in soli dieci passaggi.
“Non stuzzicate il diavolo. Non fatelo.” Replicarono gli altri ma con meno impeto, impazienti di rientrare per la cena.
“Calabrache si ha fame, dicci quello che hai da dire o noi si va via” Lo esortò il Crognaletto, un tipetto smilzo e nodoso, stimato per aver perso cinque chili seguendo la dieta “chetogenica”, sette con la dieta “alternata”, e altri nove con quella “chetogenica-alternata”.
Per un individuo sano la dieta chetogenica è controindicata, il controllo del peso tramite un regime dietetico sbilanciato è poco salutare.
Per un individuo sano la dieta alternata è controindicata, il controllo del peso tramite il consumo di un unico pasto giornaliero è poco salutare.
Per un individuo sano la dieta chetogenica-alternata è controindicata, la perdita di peso ottenuta seguendo un regime dietetico sbilanciato che prevede un unico pasto giornaliero è due volte poco salutare.
“Compagni, cittadini, amici, è giunto il momento della verità.” Sancì il Calabrache. “Abbandonatevi, liberi da ogni speculazione, ebbri di quell’energia positiva che plasma il cosmo e volgete lo sguardo al cielo con l’innocenza di un fanciullo. All’istante comprenderete che quell’affare è solamente una parte del tutto, null’altro che una sfera poco luminosa che persiste sopra la linea dell’orizzonte. Non vi è nulla di insolito in questo. Pensateci, vi siete mai chiesti perché sono stati creati il sole e la luna? E i pianeti? Qualcheduno vi ha mai spiegato l’utilità delle stelle? Ebbene tutto ciò vale anche per la nuova arrivata e non occorre di sapere altro. Dipingetela, decantatela, sognatela, e poi riponetela in soffitta tra le cianfrusaglie inutili da svendere al rigattiere un tanto al chilo."
Orazio Calabrache, magnifico nella sua poltrona scarlatta, gongolava tra applausi ed acclamazioni quando ad un tratto la sfera prese corpo e luminosità, rigonfia allo spasimo, prima di emettere un segnale, non sonoro, piuttosto un’onda gelatinosa che attraversò senza dolore ognuno dei convenuti, addormentandoli all’istante di un sonno collettivo.
Al risveglio la marmaglia ristette ammutolita in una sorta di immobilità generale pregna di disagio e amarezza. Trascorso un tempo imprecisato, alcuni scotendo il capo, altri sospirando o lagrimando, altri ancora battendosi il petto si riversarono sulla pubblica via dando luogo a ogni sorta di bizzarrie.
Si seppe, in seguito che quell’onda psichica, emessa dall’entità curativa, aveva penetrato le coscienze rendendole più fertili, capaci se non di comprendere, perlomeno di intuire gli scopi e la ragione dell’indagine scientifica. Nel sogno avevano potuto saggiare l’onesto entusiasmo di chi, dotato di grande ingegno, spende la propria vita per prevenire, curare e migliorare l’esistenza dei propri simili. Per qualche attimo, seppure in fase embrionale, avevano provato della rabbia verso l’informazione corrotta, la falsa scienza, l’ignoranza da cui origina e l’arroganza di chi se ne fa promotore.
Dimentichi dell’accaduto, ma con la mente migliorata, gli abitanti della città cominciarono a dubitare delle fanfaronate del Calabrache e disertarne il salotto. Il grand’uomo all'opposto, riparato dall’onda benefica poiché sprofondato nella sua poltrona, non ne subì alcun effetto. Unico stolto tra persone di rinnovato buonsenso, si mise in marcia lasciandosi alle spalle fori cadenti e atri muscosi, vagando, pensoso, per strade sterrate e irti sentieri, guadando fiumi e solcando mari. Deciso a raggiungere, a qualunque costo, l’ultimo lembo di terra, dal quale potersi sporgere e guardar giù. Attento a non cader di sotto.
