Michele Faidiga

Perché scrivo ?
Per diletto, per vanità
e per non essere dimenticato.
Novelle dal golfo
Il canottiere
La sveglia non serviva più a tanto, oramai il sonno si consumava sempre un attimo prima dell'alba, si potrebbe dire che il Giudice si destava con un piede nel giorno che fu e uno in quello da venire. Dal tempo della scuola, ogni mattino al crepuscolo, rinvigorito da una frugale colazione, si recava alla Società dei canottieri e accompagnato da qualche solitario gabbiano in cerca d’avanzo usciva in mare a vogare. I primi tempi lo faceva per gareggiare, in compagnia d’altri come lui, pronti a vantarsi delle buone prestazioni e delle faticate vittorie, d’esibire i muscoli plasmati dallo sforzo alle giovinette innamorate. All’università, assai impegnato, ugualmente si sforzò di conservare l’abitudine mattutina, per goliardia e perché tante ore di studio in vetuste biblioteche chinato sui libri, pretendevano un po’ d’aria fresca e del moto che lo sport del remo forniva in buona misura.
Nominato Giudice nel tribunale della grande città, stimato nel dirimere complesse controversie e conteso per l’insigne compagnia, le uscite rematorie si erano ridotte in numero. Oramai attempato, tardivamente sposato, l’alzataccia avveniva a giorni alterni ma non la domenica, riservata per volere della moglie alle occasioni mondane. Anche le distanze programmate, gli obiettivi che fissava scrupoloso ad ogni uscita in mare s’erano adeguati al suo stato, meno audaci, costretti, invecchiati.
Il giorno del pensionamento, s’era attardato al risveglio, aveva disertato la Canottiera, ignorato l’allarme del telefonino sostituito al trillo metallico della sveglia, oramai ferraglia riposta in soffitta. Inerme, seduto sul letto di casa a capo chino, i gomiti sulle ginocchia e le mani incrociate, aveva atteso che il sole penetrasse a lancia tra le fenditure degli scuri, trafiggendolo, cogliendolo in fallo, spaesato, intimorito, dolorosamente, intrinsecamente svuotato.
Non permise mai più al giorno di sorgere senza essere pronto a riceverlo, si fece scudo delle sue radicate abitudini e riprese le uscite in mare.
Una mattina d’inizio estate, seguita a giornate di bora e aria sbarazzina, un’improvvisa bonaccia aveva imprigionato il golfo, che si presentava piatto e denso come catrame, acceso a est dal riflesso del crepuscolo mattutino che dai monti allagava la città.
Ritto sul pontile, l’esile “skiff” da regata già in acqua, lo sguardo del Giudice, attratto dallo spettacolo fiammante, rimase ancorato al mare aperto, all’orizzonte lontano.
‹‹Sior Giudice tutto bene?›› chiese il custode mentre ne aspettava l’imbarco trattenendo la barchetta per gli scalmi.
‹‹Caro Fabio mi ha sfiorato un pensiero bislacco: Per tutta la vita ho remato lungo la costa, al sicuro, senza mai spingermi al largo,›› disse mentre si sistemava a fatica sul carrello e afferrava i remi lisciati dall’uso, “non ho mai desiderato farlo, mi accontentavo di guardare le vele all’orizzonte, nient’altro, ma ora che invecchio e faccio fatica a camminare…, ebbene vorrei averlo fatto, aver remato al largo.››
Fabio, che aveva fretta di attrezzare le barche degli altri, rispose istintivamente per togliersi l’impiccio: ‹‹Giudice non si va al largo con queste barchette! Se salgono onde o tira vento non si torna indietro,›› e senza attendere risposta lo spinse, con un gesto ripetuto chissà quante volte, allontanandolo dal pontile...
Il molo
Quel nastro di terra che dalle rive insiste sul mare, allorché l’attività portuale si compiva con la forza delle braccia e lo strazio della schiena, era adibito ad attracco dei mercantili che rifornivano la città. Velieri, chiatte e piroscafi intasavano gli ormeggi, dalle robuste bitte sode come funghi maturi dipartiva ogni genere di cordame che tratteneva gli scafi dagli strappi del vento e dell’onda. Tra passerelle, cassoni, ceste ricolme di ogni ben di dio e carri straripanti di sacchi, un nugolo di nerboruti facchini, marinai, mercanti e laboriosi artigianelli si spintonavano sul selciato, troppo stretto per una città cresciuta a dismisura.
Ogni sorta di prodotti sgorgavano dalle stive panciute dei natanti, che appena il tempo di fumarsi una pipa, si riempivano nuovamente di merci prodotte dalle fiorenti industrie locali e destinate altrove. Allora il molo era la lingua di questa città famelica, che dimentica della buona creanza, digeriva e assimilava tutto ciò che le veniva portato in pasto dal mare.
Eppure, questo impetuoso crogiuolo di umanità, ancorché al riparo dalla comune onda marina fu spazzato via da quella anomala del progresso. Nuove aree, distinte dal centro cittadino, vennero adibite a banchina di porto, attrezzate con formidabili gru, in grado di svolgere con una sola virata il lavoro di decine di manovali. In breve tempo, come al termine di una fiera, della frenetica operosità che dal molo si spandeva per la città non rimase nulla.
Ma non vi rattristate perché alle volte accade che al termine di un uso se ne inventa un altro, e per il molo è andata proprio così: Liberato dalle ingombranti mercanzie e dall’ormeggio delle navi, non è stato dimenticato ed è oggi assiduamente frequentato. Quel luogo, che non appartiene più alla terraferma ma non è ancora mare, è una sorta di terra di nessuno che attrae i frequentatori delle rive. Due passi la sopra e ci si lascia alle spalle la frenesia del giorno. Proseguendo, ogni angoscia si attenua sopraffatta dalla vista dell’onda, di un gabbiano ammarato, dell’orizzonte che domina il tempo. Giunti al suo estremo, è sufficiente una breve sosta per far ritorno al tran-tran della città, con la mente liberata, migliorati, svagati.
Il capocontabile Umberto F., impiegato presso una premiata ditta di spedizioni, bazzicava tutti i giorni le rive, non per svago, ma perché era quello il percorso più comodo per recarsi a piedi dalla sua abitazione al lavoro. Sempre, anche nelle giornate più fredde quando la bora pizzica il viso e toglie il respiro, o in quelle più calde quando il sole di luglio ammolla l’asfalto, si concedeva uno spiccio viaggio di andata e ritorno, una puntatina sul molo.
Era uso contare i passi tra le colonnette d’ormeggio, che risultavano sempre gli stessi, prestando attenzione a non infastidire qualche pescatore appisolato su una sediola da campo o, più raramente, un artista che ispirato dalla suggestiva veduta marina si prodigava a trasporla su tela. Giunto al punto oltre il quale s’era costretti a un tuffo nel mare, indugiava con le punte delle scarpe ben allineate sul bordo, ruotando il capo da sinistra verso destra, dalle dighe fino al porto, per accertarsi che ogni cosa fosse ancora al suo posto: Lo specchio d’acqua del bacino, la diga foranea, e più in là il cielo e il mare accostati come ci si aspetta...
Novelle dal lago
Borut e la bora
L’autunno aveva macchiato di rosso, più scuro e meno scuro, la landa carsica attorno al sentiero e più in alto il costone, dove la roccia spogliata dal vento di bora chiudeva la valle.
I muretti di pietra costringevano lo sguardo fino al punto in cui la stradicciola spariva nel bosco di faggio e di quercia, mentre gli ultimi raggi di sole del giorno saltellavano tra le fronde, rendendo più nuova la via di casa, neanche fosse altra da quella percorsa chissà quante volte al ritorno dal lago.
Il fogliame caduto e seccato per la poca pioggia formava qua e là dei mucchi sparsi secondo il gioco del vento che Borut cresciuto nella valletta conosceva bene. Ricordava come la bora nei pomeriggi d'autunno amasse spassarsela maneggiando graziosi mulinelli di foglie e a stagione inoltrata di neve.
Capiamoci, Borut conosceva per davvero la bora! Anzi ne era stato il miglior amico, erano cresciuti assieme, avevano corso nei campi e mano nella mano, si fa per dire, saltato i ruscelli. E ora che si era fatto uomo e s’ era accasato, anche se si frequentavano meno, ogniqualvolta si incontravano non mancavano mai di soffiarsi qualche confidenza e di fischiarsi qualche risata in memoria dei vecchi tempi.
Il vento di bora viveva nel tronco di una enorme quercia. Lo aveva scoperto ancora bambino quando rincasando da scuola un terribile temporale, uno di quelli che ti piombano addosso senza bussare e si fanno annunciare da qualche saetta, lo aveva costretto a trovare riparo. D’altra parte, non poteva rischiare di bagnare le scarpe buone e i quaderni, per quell’anno altri non ne avrebbe comprati, e allora si rifugiò di filata nel tronco scavato di quel vecchio albero bitorzoluto, sicuro d’esserne il solo ospite. Se la passava niente male, all’asciutto e al calduccio, riparato dal temporale. Si ritrovò a sonnecchiare e si sarebbe addormentato del tutto se non fosse stato per quello spintone che quasi lo faceva finire a pancia sotto.
‹‹Ei tu, che ci fai a casa mia?›› Gli chiese una voce sorda e potente nel tronco.
‹‹Non sai che l’ultimo ladruncolo che ha provato a entrare si è trovato con nient’altro che aria tra le mani?›› seguitò la voce.
Borut che non era di natura paurosa, mancò poco a farsela sotto e stava già per darsela a gambe, tra pioggia, fulmini e saette, quando una raffica di bora lo trattenne.
‹‹Aspetta sciocchino, dove credi di andare? Non vedi che mio cugino il temporale è di pessimo umore?›› Disse con tono di voce più sbarazzino, come quello che ci si può aspettare tutt’al più da una brezza di mare.
Borut, in piedi e con le spalle schiacciate al tronco, riuscì a malapena a sillabare qualche confusa parola:
‹‹Chi, cosa sei…, tu… lì dentro?››
‹‹Sono il vento, sono Bora, non l’hai ancora capito babbeo? Cosa ti insegnano a scuola se non sei capace di riconoscere la bora?..
Lo sciacallo e l'asinello
Dal lago è sufficiente alzare lo sguardo verso il costone roccioso, alle cui pendici se radicato un boschetto di rovere nodoso e scaglioso carpino nero, per scorgere quella profonda ferita del monte. La vecchia cava in disuso ora dimora di una mandria d’asinelli.
Un tempo, la gente del luogo raggiungeva lo scavo richiamata dall’amaro canto della sirena aziendale, che assieme ai ritocchi della campana di chiesa, scandiva il tempo e la vita degli onesti operai e dell’intera comunità.
Allora l’integrità del monte si frantumava con precise e fragorose detonazioni che ne spolpavano il fianco proteso sulla valletta del lago. Il pietrisco calcareo, travasato a cascatella su robusti carrelli, veniva condotto a valle secondo la traccia di una lunga teleferica che tagliava la landa carsica. Giunto alla fabbrica, per una magia dell’uomo che sempre si ingegna a mutare le cose in altre, assumeva l’aspetto e le proprietà della soda. Sì, proprio quella polverina candida e farinosa che ben conosciamo, tanto utile in cucina e nelle faccende di casa da non poter mancare nelle dispense delle nostre nonne.
Ma tutto invecchia e anche il fragoroso impianto ha seguito la legge del tempo e dell’incostanza dell’uomo. Un giorno gli ultimi carrelli hanno raggiunto la piana e non sono più ritornati, lasciando una costola scoperta nella parete di roccia. Col passare del tempo, come accade agli oggetti fuori posto sui ripiani di casa, né è diventata comunque parte e ora questa cicatrice sul monte non è poi tanto male.
Laddove ci si spaccava la schiena e si respirava polvere, gironzolano intere famiglie che dal paese e dalla città vengono a godere di una vista eccellente. Dalla cava e prima ancora lungo la stradicciola d’accesso, sì possono cogliere nelle giornate migliori i particolari della pianura, i variopinti colori delle vele sul mare e più in basso i riflessi del lago lucente.
I genitori, i nonni indicano con il braccio teso ai piccini il volteggio di un falcone in volo e i più fortunati l’apparizione furtiva di qualche schivo camoscio. Ma l’attrazione principale è da qualche tempo la costante presenza dei tanti asinelli liberi al pascolo, protetti dall’uomo da un filo elettrificato.
Perla, era una delle asinelle più acclamate dai visitatori che la preferivano agli altri per la sua delicata bellezza. Mamma asina aveva scelto per lei quel nome prezioso a buona ragione, in quanto vestiva un mantello di quel grigio chiaro e cangiante, capace di restituire la luce, proprio della gemma marina. La sua giornata era regolata dal gioco del sole, e a parte seguire la madre al pascolo o assecondare talvolta i richiami dell’uomo avvicinandolo e lasciandosi ben vedere ma raramente accarezzare, altro non aveva da fare.
D’animo avventuroso si annoiava, soprattutto in quei lenti meriggi estivi nei quali solo il canto delle cicale si esibisce a sfidare la canicola. Allora all’ombra della vecchia quercia frondosa, curiosa, dava tormento alla madre con le stesse domande, ottenendo per contro le medesime risposte.
‹‹Mammina perché un recinto che pizzica ci divide dagli uomini?›› Chiedeva la somarella.
‹‹Bimba mia, ne abbiamo già parlato ieri, l’altro ieri e prima ancora. Il branco degli uomini è costretto nella recinzione perché altrimenti potrebbe scappare, smarrirsi tra i pascoli e il bosco...
Novelle fantastiche
Il registro delle buone intenzioni
Un primaverile pomeriggio di inizio autunno, seduto al tavolo della Caffetteria alla metà del viale, centellinavo un caffè, né troppo acido, né troppo amaro, né troppo intenso, rotondo. Tutto sommato un discreto caffè.
Lo sguardo rivolto alle foglie accartocciate dei platani, cocciutamente aggrappate al ramo amico, da lì a poco destinate ad arrendersi al primo refolo di bora in visita alla città.
Con me mia cugina, la cara Evelina, giunta da qualche giorno in famiglia, pronta a ripartire per l’estero. La tazzina in una mano, il cucchiaino colmo di panna nell’altra e quell’espressione adorabile che ha sempre abbindolato tutti fin da bambina.
Dalla vetrata, aperta alla strada, si scorgeva il via vai di facchini, impiegati, negozianti, giovanotti e pensionati che in ogni ora del giorno ingorgano il viale. Camminate frettolose, per arrivare prima, per fare in tempo, sbatacchiati qua e là dalla furia ceca della città.
‹‹Che strana quella palazzetta, due vetrine e il portone nel mezzo: due grandi occhi per guardarci meglio e un nasone per fiutarci.›› Se ne esce con una delle sue stramberie la cuginetta.
‹‹Quale?›› chiesi perplesso. Non c'erano che i soliti edifici, invecchiati, addossati l’uno all’altro per sostenersi a vicenda. Ai loro piedi, affacciati alla strada, i negozi di sempre, molti già avviati quand’ero ancora bambino e si giocava a palla tra le macchine in sosta.
‹‹Come sarebbe quale? Sei accecato dall'amore? Dall'odio? O da entrambi per la stessa donzella?›› Mi canzonò, posando la tazzina nel centro del piattino.
‹‹Quella davanti a te babbeo! La palazzina incastrata tra i due palazzoni.›› Disse alzandosi e puntando il cucchiaino all’altro lato della strada, catalizzando l’attenzione di una buona metà degli avventori.
A guardar bene, vi era in realtà una strana costruzione che spezzava la linea regolare delle altre. Di poco più bassa e parecchio più stretta, rientrata di qualche passo dalla strada, lasciava una sorta di spazio vuoto, ombrato, riempito alla vista dalla presenza invasiva degli edifici attigui, tanto che la si distingueva a stento. La facciata, di un colore indefinito che si faticava a guardare, non presentava nulla di veramente insolito, che attirasse l’attenzione, cosicché lo sguardo scivolava oltre. Non fosse stato per le due vetrine a specchio, montate ai lati del discreto portoncino, sarebbe scomparsa alla vista, invisibile...
Un tonfo sordo
La prima volta l'ho sentito a pranzo. Seduto a tavola con mia moglie, lei a riempirmi il piatto, io a cercare le parole per dirle che non era cibo quello che volevo. Era un tonfo sordo, quasi impercettibile. Un battito di cuore ovattato, come quello che si sente appoggiando lo stetoscopio al petto. Giungeva da fuori, di questo ero certo. Laura mia moglie non lo sentiva, continuava a trafficare con le posate, e forse non c'era niente da sentire.
Avevo conosciuto Laura in biblioteca, ci andavo perché sono un insegnante. Lei perché sua cugina era la bibliotecaria e i mercoledì sera si sedevano al cinema Odeon, lì di fronte, dove proiettavano qualche vecchio film d'amore. Mia moglie era diversa dalle altre, fresca come un bocciolo che promette di essere rosa. Ora passa il tempo a cucinare, lamentarsi dei chili di troppo e vivere a puntate la vita di altri nelle serie tv.
Mi ero appena lasciato cadere sul divano, il libro aperto e lei accoccolata al mio fianco a dirmi che sua cugina stava seguendo una dieta a base di non so quale vegetale, quando ho ricominciato a sentirlo. Ancora quel sordo battito, tump, tump e ancora tump. Ogni nove secondi esatti. Lo so perché ho controllato guardando di sottecchi l'orologio sopra il caminetto. Quello comprato in viaggio di nozze a Venezia, in vetro sfaccettato e multicolore, che alla fornace brilla e ti incanta e poi scopri che in casa ha perso la magia, un po’come Laura, ma ormai c'è e gli devi trovare un posto.
‹‹Qualcuno sta battendo i tappeti nella casa di fronte,›› pensai poco convinto, e intanto Laura aveva cambiato discorso, chiedendomi se ricordassi che domani si andava dai suoi e pregandomi di trattare bene suo padre. Alzai lo sguardo e fingendo di ascoltarla scorsi dalla sua espressione, quella di sempre, che ancora non lo sentiva. Altrimenti si sarebbe girata e avrebbe criticato i nostri vicini che facevano le lavatrici la sera e le feste fino a mezzanotte passata. Non come noi, attenti a non disturbare nelle ore di silenzio e quel silenzio usarlo anche nei pochi momenti d’amore.
A tarda ora, nella stanza da letto, il tonfo giunse a intervalli più lunghi, frenato dall'inerzia della notte ma amplificato dall'oscurità e dai pensieri. Intenso a tal punto da pesare fisicamente e indurre un sonno agitato, senza pace...
Giannina provabacio
Era un bacio fugace, non di quelli appassionati alla francese, che durano un’eternità e si amano o si odiano per una vita intera. Solo due labbra appoggiate l'una all’altra, per far conoscenza.
Giannina provabacio, così chiamata dagli amici per distinguerla dalle altre Giannine, poche in verità, che abitavano nella cittadella, aveva scoperto in tenera età la maniera per conoscere una persona senza perdersi in pedanti frequentazioni: la prova del bacio. Non si conosceva l’origine della sua singolare capacità, forse eredità di una bisnonna un tempo guaritrice nella comunità, stimata dai molti che le dovevano la vita e additata dagli altri come strega. Tuttavia, era certamente in grado di scrutare nell’animo di ognuno di noi, di osservarci oltre la finzione, scrollarci di dosso i pesanti abiti con cui ci proteggiamo dal gelo delle emozioni, lasciandoci all’istante senza difese, tremanti. Riusciva a tanto senza alcuna fatica e senza malizia con un semplice tocco delle labbra.
Se da bambina il rito innocente del bacio, affibbiato senza preavviso ad ogni nuovo amichetto, non le aveva creato alcuna difficoltà, più tardi alle scuole, la sua nativa e pudica abitudine veniva frequentemente fraintesa. Giannina ragazza perbene, d’indole riservata e delicata bellezza, cresciuta con la rassicurante certezza di poter giudicare gli altri meglio che sé stessa, soffriva a non poter chiedere un bacio al parco, alla spiaggia, alla scuola e in ogni luogo dove incontrava qualcuno da far conoscenza.
Alle volte, per abitudine o necessità non riusciva a trattenersi, e scopriva che i giovanotti che baciava già cominciavano ad atteggiarsi, ad aggiustare i loro modi agli altri, all’ambiente, mascherandosi. Li allontanava confusa e allarmata dalla loro doppiezza e questi feriti nell'orgoglio ne dicevano male. Giannina, giudicata strana, veniva evitata e in breve dimenticata...
La rotonda
Dal paese di Colle alto si giunge a quello di Colle basso percorrendo una stradicciola perduta tra ordinati filari di viti e verdeggianti campi, un tempo seminati ora non più. Tra i due colli, un’ampia valle fertile e soleggiata sonnecchia immutata nel tempo, risparmiata dall’incedere del progresso e dal cemento che ne traccia la via. Eugenio Tabacco, scrupoloso dipendente del catasto provinciale in pensione, conosceva quella strada come le sue tasche. Ancora bambino, ben prima che l’asfalto la vestisse di grigio, la percorreva a piedi per andare dai nonni, poi da ragazzo la sorvolava ogni mattino a rotta di collo in sella alla sua bicicletta per giungere in tempo alla scuola, spronato dallo scampanellio impaziente del bidello che non tollerava ritardi.
Non appena compiuti gli anni sufficienti a indossare un caschetto e pilotare un motorino con i pedali, vi scorrazzava beato con gli amici, anch’essi motorizzati alla buona, trasformandola in una pista per le gare motociclistiche, incitati ad ogni passaggio dalle ragazze del circondario che nei giorni più fortunati promettevano un bacio da far schioccare sulla guancia del vincitore. Anche in seguito, mantenne il quotidiano andirivieni tra campi e grappoli d’uva per recarsi al registro degli immobili, seduto alla guida di una fiammeggiante berlina gran turismo sulla cui capelliera Rosina, moglie creativa e pratica nel far di maglia, aveva sistemato in bella vista una montagnola di cuscinetti in lana variopinta, soffocandone ogni ambizione sportiva.
Aveva trascorso così tanto tempo a rimbalzare tra i due paesetti appollaiati sui rispettivi colli, che perfino i cippi chilometrici conficcati a bordo strada, noti per il rigido contegno, gli erano familiari e non si sarebbe stupito se prima o poi gli avessero rivolto un saluto o trovato un pretesto per scambiare due chiacchere...
Novelle di Natale
La dottoressa del Natale
Si poteva ben dire un Natale coi fiocchi, e a prima vista l'espressione calzava a pennello perché sulla cittadina candidamente imbiancata, continuavano a scendere in quella notte di vigilia, dei grossi e pigri fiocchi di neve.
Ma volendo spingersi oltre l'apparenza, che talvolta inganna, ci si sarebbe accorti che qualcosa non andava per il meglio, tanto che l’ovattata sensazione di pace, profusa a buon diritto da ogni paesaggio adeguatamente innevato, non era affatto condivisa dagli abitanti del luogo alle prese da giorni con una strana malattia.
Dall’abitato si diffondeva un alone, se così lo possiamo definire, di inquietudine e sofferenza che si propagava fisicamente nel tempo e nello spazio seguendo le regole di ciò che chiamiamo Anima, Karma o semplicemente energia.
L’emanazione quella notte s’era fatta più spessa nei pressi di un modesto ospedaletto. Nel quale, fatto raro, aveva preso forma un’aurea corposa a tal punto da rendersi visibile, quasi tangibile, a coloro ai quali da sempre è dato di monitorare l'essenza della materia per aiutare e porre rimedio.
‹‹Dottoressa, Dottoressa Apollonio solo un momento, deve dare un’occhiata a quella bizzarra signora all’entrata. Ipotermia, battito lento e debole, ma cosciente e non sofferente,›› disse l’infermiera del turno di notte, indicando con il registro degli accessi una nonnina minuta seduta sull’orlo di una grande sedia a rotelle accostata alla parete del corridoio.
Attese un attimo, ma non abbastanza per ottenere una risposta, e continuò tutto d’un fiato: ‹‹Ogni letto dell’osservazione è occupato, i prossimi ricoverati li dovrò sistemare alla meglio negli ambulatori. Non so più che fare, le ambulanze in coda, devo occuparmi di tutto, e ho solo due mani.››
Anche Marina, la dottoressa Apollonio, medico aggiunto al pronto soccorso per far fronte all’emergenza sanitaria, non aveva mai subito una tale pressione. Esausta cominciava a manifestare i sintomi dello stress, non dormiva più di cinque, sei ore per notte e al risveglio era già stanca e agitata. Tirava avanti così da settimane e complice il grande freddo degli ultimi giorni, l’afflusso di malati non accennava a diminuire, tanto che nella giornata non ancora conclusa si era raggiunto il picco di ricoveri dall’ inizio della malattia. Un triste primato per quella che si delineava come la peggior Vigilia di Natale della sua vita...
Il soldato Gesù del 25° battaglione
Nascere il 25 dicembre non sempre porta bene. Se poi dei genitori, poco brillanti o molto devoti, ti affibbiano il nome di colui che tutti ha salvato, allora la frittata è bella che fatta!
Gesù Aldo venuto al mondo il giorno di Natale in un prospero paesetto sistemato come un presepe sul cucuzzolo di una verde collinetta, aveva faticato tutta l’infanzia per rimediare all’eccesso di entusiasmo del padre, che in buona fede aveva combinato un bel pasticcio. Davanti al grande e logoro registro delle nascite, colmo di nomi uguali e abusati, complici i ripetuti brindisi in onore del bel figlio, della brava moglie e della vecchia levatrice s’era intestardito a volerlo chiamare come l’altro bambinello nato in quello stesso giorno, Gesù.
Grazie a Dio, espressione in questo caso quanto mai azzeccata, la funzionaria comunale addetta al registro delle nascite, avvezza alle stravaganze dei padri del luogo, assidui frequentatori dell’unica osteria di quel paesino, con molta diplomazia riuscì a convincerlo che era poco opportuno chiamare il proprio figlio come il Redentore in persona. Se non altro perché si sarebbe sentito parte in causa in ogni preghiera, proverbio e perfino bestemmia.
Si convenne così, dopo vari tira e molla, per il nome Gesù seguito, ma non tutt’uno, dal nome Aldo. Quello di un famoso calciatore a cui il padre aveva, tempo addietro, accomodato uno pneumatico forato.
Gesù Aldo, non mancava di perspicacia e fin da piccino comprese subito che era meglio liberarsi in fretta e furia da quel primo nome ingombrante, che alimentava a casa come a scuola e ancor più in chiesa, paragoni troppo impegnativi. Aveva quindi impiegato ogni mezzo e gran parte del tempo che i suoi coetanei sprecavano oziando, per distinguersi dalla figura del Salvatore originale, eccellendo in biricchinaggine, indolenza e poca voglia di studiare...
Karim e Maryam
Marciavano da giorni, riposando poche ore, alle volte di giorno altre la notte, rinchiusi in qualche vecchio casolare rimediato dai trafficanti che si vendevano i clandestini come si faceva un tempo con le mandrie. Ora però lo scambio avveniva senza una parola né una stretta di mano, perché dopo in paese, all’osteria, a casa dalla moglie e con i figli era più facile vivere senza vergogna.
Ci si spostava in piccoli gruppi. Con Karim studente musulmano, erano in sette a lasciare il segno del loro pellegrinaggio, scolpendo passo dopo passo le orme nella neve che cadeva fitta sulla piana che conduceva al confine del Nord. In quello di Maryam, maestrina africana di fede cristiana, la sorella maritata al nord e le nipotine mai conosciute, erano rimasti in cinque. Aisha e Abdel, marito e moglie, si erano persi nella notte attraversando il bosco.
L'intento delle canaglie che li scortavano, lo stesso da anni, era quello di raggrupparli nel fondo di una piccola dolina recintata, un tempo rifugio di pecore, celata alla vista dalla strada principale ma collegata a questa da una mulattiera, e caricarli alle prime luci dell'alba su un camion frigorifero che ogni mattina attraversava la frontiera. Costretti, ammucchiati senza respiro in un falso fondo, dietro cassette di pesce fresco e di granchi vivi, capaci di confondere il fiuto dei cani. Merce destinata ai mercati delle ricche città del nord per la Vigilia di Natale.
Quella notte Santa il freddo e il vento di bora s’erano calati furiosi sul litorale e infilati in quella dolina. Donne e uomini del sud dai vestimenti leggeri, stremati dai tanti chilometri percorsi a piedi, non riuscivano a scaldarsi...
Shoah
Questo è un racconto di fantasia. Scritto nella Giornata della Memoria allo scopo di insegnare ai miei figli quanto male, quanta sofferenza può causare l’odio razziale. Credo di non esserci riuscito, perché non sono all’altezza e perché per descrivere il tormento di coloro che hanno subito la shoah non bastano tutte le parole del mondo.
Questa lettera strappata dalla mano di Rachele Corsi, fanciulla morta di stenti e di dolore il 27 gennaio 1945 poco prima della liberazione, è stata incisa su una targa, voluta da cuore compassionevole e giusto, posta tra l’erba e i fiori in un prato della campagna polacca, là dove venivano radunati gli ebrei in attesa della partenza per i campi di sterminio.
Papà, l’uomo più mite e generoso che si possa immaginare ci ha lasciati per primo, arrestato mentre spolverava i libri esposti in vetrina, in una mano il piumino e nell'altra un romanzo d'amore. Lo costrinsero a salire sulla camionetta mentre ci diceva di non avere paura, che tutto si sarebbe aggiustato, e non se ne seppe più nulla. La mamma, disperata e terrorizzata da quei bifolchi organizzati in squadracce, che visitavano i negozi dei giudei sfasciando tutto e tutti, dovette vendere la libreria per pochi spiccioli, poco più di un’elemosina, e nascondersi con noi tre figlioli in un misero paesetto poco fuori città.
Io, Anna e Mario aspettavamo in casa in silenzio, gli scuri chiusi di giorno, per non farci vedere dai bambini che sentivamo giocare nell'aia, nella strada, mentre la mamma andava a guadagnare quel tanto che bastava a sfamarci, da un sarto di buon cuore che l'aveva impiegata.
Ma quel giorno dannato mamma non tornò per il pranzo, e non rincasò la sera. All’alba dopo una notte di pianti, impauriti, affamati e non sapendo che fare, decisi di disubbidire, di uscire di casa per cercarla.
‹‹Ehi, tu! Mocciosa! Da dove arrivi?›› Mi apostrofò un ragazzino che stava seduto sui gradini di una grande casa immacolata.
‹‹Sto cercando la mamma che non è rincasata›› confessai ingenuamente, sperando che mi potesse aiutare. Invece mi tradì.
Il farabutto, che aveva assistito all'arresto di mia madre, schernendola mentre veniva trascinata a forza dalle guardie e si disperava per il nostro destino, senza poter dire nulla di noi per non farci scoprire, chiamò a squarciagola:
‹‹Correte! Presto! C’è la figlia dell'ebrea›› e si alzò per afferrarmi, per consegnarmi. Scappai, seminando non so come quel ragazzino crudele, resa ceca dalle lacrime e con il cuore spezzato dal dolore e dalla rabbia.
Anche la mamma ci era stata portata via come il papà, forse erano morti, li avevano ammazzati.
‹‹Siamo rimasti soli,›› pensai tra i singhiozzi, ero la più grande e dovevo badare ai miei fratelli. Feci ritorno per un’altra strada, nascondendomi in ogni pertugio, spiando da ogni cantone.
Le strilla, il pianto disperato mi raggiunsero prima ancora di arrivare: Anna era stata caricata a forza, gettata su un autocarro come un sacco, mentre Mario che cercava di difenderla, di lottare con le sue piccole manine, di mordere quei vigliacchi continuando a urlare il suo nome, Anna, Anna, Anna, veniva calciato, battuto, gettato a terra e deriso da un gruppetto di adulti e di ragazzini che lo chiamavano sporco ebreuccio, sputandogli addosso. Feci per correre da loro, volevo raggiungerli, stringerli forte e consolarli, come quando la mamma ci leggeva le favole con l’orco, ma dietro due mani, due tenaglie mi afferrarono entrambe le braccia bloccandomi e una voce grave mi disse:
‹‹Se urli vengono a prendere anche tè. Non puoi fare nulla per i tuoi fratelli, li portano via.›› Troppe emozioni, troppo dolore per oppormi, mi mancarono le forze e caddi, la faccia calcata su quella terra grama, separata per sempre dai miei amati fratelli.
Rimasi nascosta a lungo in casa del buon uomo che mi salvò la vita, il fabbro del paese, fino a ché venne arruolato e partì per la guerra. Morì poco dopo al fronte e la moglie, sconvolta, impaurita dal rischio di nascondere un'ebrea, mi consegnò ai civili di ronda. Padri di famiglia che soddisfatti della preda inaspettata passarono la sera raccontando l’impresa alle mogli e ai figlioli.
Fui trascinata in una baracca, assieme ad altri come me, per settimane imprigionati senza cibo ne coperte, in attesa di caricarci sui treni per condurci ai campi di “lavoro”.
Scrivo queste poche righe, perché mi sento morire di freddo, di fame, di solitudine, mi manca il papà e i suoi scherzi quando tornavo da scuola, mi manca la mamma che a tavola mi riempiva il piatto delle cose più buone e mi mancano Anna e Mario che ho abbandonato e non dovevo lasciare da soli.
S’è fatto buio, ho scritto tutto. Dio che mi hai abbandonata, che ti sei dimenticato di tutti noi, fai che se domani non vedrò il sole sorgere io possa almeno rivedere il mio papà, la mia mamma, i miei fratelli.
L'odio razziale è un fuocherello che sembra tenerci al calduccio, proteggerci dal gelo del malcontento e del risentimento. Arde alimentato dalla meschinità del pensiero, si propaga ravvivato dai venti freddi dell’ignoranza e dell’irrazionalità. Senza nessuno che lo domi, lo contenga, a poco a poco finisce per incendiare il mondo, bruciare la ragione. Mai più è un giuramento che ognuno di noi deve rivolgere a sé stesso, un impegno che lo renda a vita sentinella dell’umanità.
Altri racconti
Il supplente
Da ragazzino credevo che tutto sarebbe accaduto comunque. La mia vita avrebbe preso forma, pulita e ordinata come in un romanzo dell’Ottocento, senza sforzo. Bastava aspettare, e aspettavo disteso nel letto chattando dal cellulare. Il tempo scorreva lento, imbrigliato dalla mia indifferenza verso tutto ciò che mi ruotava attorno, il mondo dei grandi, mamma e papà sempre di corsa. Non vi agitate pensavo, e me la prendevo con calma.
Sciocchezze, sono cresciuto un po’ e già avverto che il tempo scivola via a razzo. Nella vita niente si muove se non lo prendi a spallate. Se stai fermo non succede nulla, punto. Tranne che ti guardi dentro e ci trovi il vuoto. All’inizio non fa paura perché non è profondo, e sbadigli girandoti dall’altra parte. Ma se ti abitui sei fregato. Tutti quelli che hai attorno, anche quelli che ti vogliono bene, cominciano a dubitare, a guardarti male. Non sei più un ragazzino scaltro e un po’ ribelle. Ti stai trasformando, come la blatta di Kafka, in qualcosa di disdicevole. E se ci credi finisce proprio così.
Suona la sveglia e rotolo giù dal letto. Mi sono di nuovo addormentato vestito e tutto sommato va bene, si fa prima a uscire da casa. Non mi ricordo se ho lezione alla prima o alla seconda ora. Ieri ho sbagliato e i ragazzi non hanno detto niente alla bidella. Così per due ore hanno giocato con i telefonini e quando sono arrivato, ho giocato anch’io, tanto mancava poco alla campanella.
Insegno storia come supplente, e non me ne frega niente perché non sono un vero professore.
Un impiegato del provveditorato, la sera aveva alzato il gomito. Il giorno dopo ha trascritto il mio indirizzo su una busta. All’interno si leggeva: ‹‹La presente per comunicarle che basandoci sulla graduatoria per le supplenze e le sue precedenti assegnazioni, la riteniamo idoneo per ricoprire il ruolo di insegnante di storia presso la scuola media Umberto Saba››.
Bizzarro visto che ho diciassette anni, anche se mia nonna dice che ne dimostro trenta per colpa della barba da taglialegna, e frequento di malavoglia il liceo della città...
Il camaleonte e la farfalla
Si trattava senza alcun dubbio di un camaleonte, non di quelli che ti puoi trovare di fronte nelle foreste del Madagascar o immobili quasi impagliati nel rettilario di uno zoo, ma una specie sconosciuta non ancora classificata secondo i rigidi canoni delle scienze naturali.
Gabriele mutava d’abito e di maniere con la facilità con cui l’animaletto a sangue freddo muta il colore della pelle. In natura entrambi condividevano lo stesso intento, mimetizzarsi nei rispettivi habitat per passare inosservati.
La mattina si recava al lavoro in camicia bianca e scarpe in cuoio, confondendosi tra centinaia d’altre camicie bianche e un numero pressoché doppio di scarpe in cuoio, ostentava un’espressione seriosa presenziando a una importante riunione, ed una più confidenziale mentre sorseggiava un caffè erogato dal distributore automatico.
Il pomeriggio, con un coltellaccio infilato nella custodia in cuoio appesa alla cinta, si avventurava tra boschi e radure in compagnia di altri come lui che amavano fotografare ogni sorta di volatile, gongolando allorché una specie rara e schiva stabiliva che era giunto il momento della ribalta.
La sera accoccolato nella poltrona di cuoio comprata dal robivecchi all’angolo, amava leggere e rileggere la vita d’altri. Romanzi d’ogni tempo, scritti in ogni dove dalle penne leggiadre dei tanti cantastorie del genere umano.
Così trascorreva le sue giornate Gabriele il camaleonte, prima d’essere smascherato dalla farfalla Jolanda, alla quale piaceva camminare scalza, vestire come le andava e attirare l’attenzione dei propri simili...
Non sarò mai uno scrittore
Non sono capace a scrivere. Vorrei saperlo fare ma è difficile, sbaglio sempre qualcosa e quando rileggo le parole che ho scritto con tanto impegno e in bella grafia non sono più le stesse.
Proprio così, più le guardo meno le riconosco. Alle volte appaiono smilze, smagrite, svuotate di ogni significato, e subito dopo sono rotonde, grassocce, traboccanti di contenuti seri e importanti, ma sempre inesorabilmente diverse da quelle tracciate.
Tuttavia, esaminandole attentamente, ingigantite dalla lente che il nonno adoperava per indagare le minuzie dei suoi amati francobolli, posso affermare con una certa sicurezza che sono ancora loro. Camuffate forse, ma sempre le stesse paroline che avevo lasciato seccare sul foglio, ben allineate in fila indiana, con tutte quelle letterine graziose disposte al posto giusto e nel giusto ordine, con le maiuscole ben marcate e le gambette delle a diverse da quelle delle o, scritte proprio come pretendeva la maestra Clara, che in quinta elementare mi aveva predetto un futuro da scrittore.
Sono trascorsi quarant’anni, anzi per essere precisi quarantatré anni quattordici giorni e qualche minuto da quel giorno solenne, e lo ricordo ancora come fosse oggi.
Era una mattina di primavera inoltrata, il tepore mattutino dei primi raggi di sole mitigava il gelo della notte appena trascorsa. Pigra, la luce irraggiata dal cielo terso si faceva strada tra seggiole e banchi di scuola, alimentando in noi scolaretti il desiderio di un pomeriggio trascorso tra amici e corse nei prati fioriti. Il cinguettio allegro e giocoso dei fringuelli, che si rincorrevano tra gli alberelli del parco, sostenuto dalla corposa brezza mattutina, si insinuava a tratti tra le ante delle finestre accostate. Chino sul quaderno stavo ripassando la lezione, rapito da poetici versi che raccontavano di foglie e gocciole lontane, quando la Maestra Clara, con fare grave a tal punto da farmi tremare le ginocchia, m’invitò ad alzarmi ed a raggiungerla alla cattedra. Mi cinse le spalle, e con il tono solenne delle grandi occasioni, esibendomi ai compagni come merce preziosa, disse che era fiera di me e che mai aveva insegnato ad alunno più capace.
Tranne una certa Isabella, che però non contava perché era una bambina e lo sanno tutti che le femminucce parlano prima, scrivono meglio, studiano di più e non fanno a botte.
Era anche certa che da grande sarei divenuto uno scrittore o nel peggiore dei casi un poeta, avendo puntigliosamente verificato con la precisione che le era consona, che non uscivo mai dalle righe, non facevo le “orecchiette” ai quaderni e sapevo quando l’h si accompagna con la a e quando la e chiama l’accento...
Il sospiro del violoncello
Il “bosco da musica”, di quella qualità di legno dalla fibra elastica, capace a sostenere le note senza calar di tono, era ben visibile dalla finestrella della bottega. Una macchia verde delimitata da aride pietraie e, tra una passata di piala e un colpo di raspa, il maestro non mancava mai di posarvi uno sguardo ammirato come quello che si rivolge a un amico del quale si ha stima.
Una mattina di primavera, di quelle in cui la montagna si sveste del bianco mantello, da quella finestra vide giungere un tiro a quattro, quattro palpitanti cavalli madidi e lustri con al seguito un maestoso cocchio di città, che a ben guardare si sarebbe scorto ancora nella piana, per quanto luccicava.
“Ehilà di casa, si cerca Mastro Lorenzo per conto del mio Padrone che attende impaziente in carrozza, spossato e snervato dai continui trabalzi su questa impraticabile mulattiera che vi ostinate a chiamare strada.” Esordì, affacciatosi alla soglia della vecchia officina, un altezzoso giovanotto costretto in una impeccabile o se preferite inguardabile uniforme da vetturino.
“Chi cerca trova, anche tra monti, valli e mulattiere che si fingono strade.” Rispose l’anziano artigiano prostrato in un inchino a dir poco esagerato dal quale si rialzò con misurata lentezza.
“Esimio Signore, sono Mastro Lorenzo, al servizio dell’illustrissimo vostro Padrone, lieto di assisterlo per tutto ciò che concerne il mio mestiere, ma al momento sprovvisto di cura indubitabile per i suoi nervi e la sua irrequietezza. Ad ogni modo, non potendo offrire altro, mi permetto un consiglio di quelli semplici, di un anziano che ha viaggiato poco ma vissuto a lungo: Credo potrebbe giovargli sgranchir le gambe e respirare un po’ di questa nostra aria grassa e salubre. Meglio ancora, nervi permettendo, potesse spingersi fino alla taverna poco avanti, dove non c’è molto ma quello che c’è è buono e non manca mai il vino. Non assicuro una guarigione ma ho visto più volte “ammalati” trascinarsi fin là sofferenti, strascicando i piedi, ritornare arzilli come giovanotti, cantando e in qualche caso finanche ballando.”
L’impettito sbarbatello di città, certo d’essere preso per i fondelli, preferì dissimulare l’imbarazzo proseguendo irriverente:
“Per santa Bernardetta di tutti gli ammalati! Al diavolo le taverne e i vostri triviali rimedi alpini che da noi in città gli infermi si risanano negli ospedali! Piuttosto occupiamoci del mio Signore. Badate che ho condotto fino alla soglia della vostra misera bottega nientepopodimeno che il grande Maestro Alexey Nicolini Pavlonj!” E indicò con plateale movenza la vettura che sostava nel viottolo a fronte, nell’attesa che quel nome altisonante, capace di creare scompiglio a corte e pronunciato come un trillo di tromba generasse l’effetto sperato. Ma il braccio rimase issato a mezzaria, quello di un burattino con i fili ingarbugliati, mentre le squillanti note di tromba stramazzavano al suolo raggelate dall’incuranza del tiglioso montanaro.
Alexey Pavlonj era a detta di tutti il migliore. Non era affatto semplice stabilire in quale campo dello scibile umano primeggiasse. Dotato di una vivida intelligenza, accompagnata da talenti in molte discipline dell’arte, era considerato a buona ragione il più virtuoso violoncellista del regno e non si preoccupava affatto di nasconderlo. Aveva ereditato dal padre, facoltoso commerciante veneziano, l’ingegno e una rara rapidità di pensiero che non ne ostacolava la profondità, insieme, s’intende, a un’inesauribile fortuna. Della madre, tale Karenina Gertrude Alessandrova Povlona, si portava appresso il cognome e quel fare altezzoso e insofferente, irrimediabilmente malinconico, proprio di tanti nobili decaduti e impoveriti nelle finanze, oltre a un’interminabile sfilza di primi, secondi e altri nomi che contribuivano al convincimento che nessuno fosse adeguato al suo stato. Cionondimeno, per chissà quale balordo dettame della buona società, nei salotti più influenti ci si metteva in fila, come mendicanti alla mensa dei poveri, per essere presentati a tale personaggio eccentrico e sgradevole, che disprezzava tutto e tutti non mancando mai di farlo notare.
Ad ogni modo, in quelle regioni montane gli usi di corte giungevano poco più che flebili echi e la presenza del superbo concertista non sembrava aver destato l’interesse del liutaio che, incurante, aveva ripreso a trafficare qua e là serrando un morsetto e soffiando della segatura da un intaglio. Gli sbuffi polverosi esasperarono il vetturino che, avvezzo a tutt’altro genere di benvenuto, lo apostrofò concitato:
“Ha inteso maestro dei miei stivali? Le ripeto che il grande Pavlonj, Alexej Pavlonj, proprio quel Pavlonj che nella capitale tutti si contendono, quello per il quale le porte del palazzo reale si spalancano di giorno e non si sprangano la notte, attende qui fuori alla pari d’un mendicante in attesa d’elemosina, dopo aver affrontato le pene dell’inferno. Tutto per questa balzana idea di procurarsi uno dei suoi stramaledetti strumenti! Per la miseria vecchio sei sordo o irrimediabilmente tardo di comprendonio?”
Casali volse il capo e accostò all’orecchio una mano a coppa al modo degli anziani fiacchi d’udito.
“Come dite giovine? Parlate adagio e non v’agitate che la collera fa cattivo sangue. Mi duole farvi sapere che da questo lato sento poco. L’orecchio destro, fin da bambino mi fa penare, egli non accetta di buon grado le strafottenze e non vuole saperne di riferirmele. Quest’altro invece, il sinistro, lo tengo libero di proposito dalle fregnacce e lo riservo all’ascolto di sole cose pratiche, talvolta frivole, purché gradite. Per questo, a coloro i quali non sono stati educati alle buone maniere, posso apparire sordo e perfino tonto. Vi prego quindi, affinché non si sprechi altro tempo, di esprimervi in modo più garbato e congeniale al mio orecchio in modo da invogliarlo a riferirmi ciò che dite.”
Il giovanotto, sbruffone ma giudizioso, raccolto il predicozzo e compreso che non l’avrebbe avuta vinta con quell’impervio personaggio che cominciava a rispettare, rispose con accortezza:
“Mastro Casali comprendo e chiedo venia, tenterò di farmi intendere dal vostro orecchio bizzoso e magari anche dall’altro, il sinistro, che riservate a vostro piacere. Ebbene il mio Signore, dopo aver percorso tanta strada per fare la sua conoscenza, attende di essere ricevuto e la prega in tal senso. Diversamente alla bettola più avanti mi ci ritroverò io, sano, giulivo e perfino ballerino ma senza impiego, e allora Maestro vi assicuro che mi dedicherò anima e corpo a supplicare ogni santo giorno la carità davanti la vostra rinomata bottega!” Terminò con un inchino e un sorriso bonario e riguardoso.
“Ora ci capiamo giovine. Rincuorati non ci tengo ad averti tra i piedi tutti i giorni. Animo, conduci nella stanzetta qui a fianco il grande artista con tutte le sue pene. Il tempo di togliermi il grembiule, la colla dalle mani e vi raggiungo.”