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Variazioni sul tema

di Michele Faidiga

Tema

   Dalle pericolanti e infeconde vette alle fertili piane pascolate, dalle gelide acque artiche alle spiagge alabastrine fiancate da palmizi, dai marmorei balconi di città alle sonnolente casupole di qualche rado paesello, dalle fabbriche, dalle risaie, dalle miniere a cielo aperto fortuna e sventura di molti, dagli schermi divinità di ogni abitazione o luogo d’incontro e di socievolezza, dai tanti luoghi spopolati e più adatti alla nostra spontanea selvatichezza, in ogni cantuccio di questa terra grama laddove s’è barbicato l’uomo, ovunque, incombeva immobile e silenziosa quella forma indefinita.

   Apparsa alla chetichella la mattina della prima domenica di febbraio, mese poco incline alle novità, s’era piazzata all’orizzonte come nulla fosse, sgomitando un po’ sia detto, ma senza una vera prepotenza, una o due spinte, tanto da guadagnarsi un posticino “in prima fila” e li restarvi a fare chissà che, perfettamente immobile e del tutto inutile. Che dire, se ne stava lì, senza apparente volontà, lasciandosi amare da questi e odiare da quelli, disattenta, incurante del putiferio causato di sotto. Contemplata dagli animi più sensibili, magnificata, esaminata in ogni minuzia, a nulla erano valse le proteste di molti che le imputavano, tra grida e cartelli sbilenchi, il peggioramento del naturale confine tra cielo e terra, quella linea dell’orizzonte che incombe dal primordio sulle travagliate vicende umane.

   Le sue origini, ipotizzate diverse, incutevano timore e religiosità. Interi popoli riconobbero in essa il manifestarsi dell’attesa profezia, il compimento del disegno divino, altri denunciata la sua genesi infernale si preparavano al peggio. In realtà, se di realtà si può parlare, quell’affare era sempre stato lì, alla giusta altezza e in quel preciso angolino, non un po’ più in qua e neppure un po’ più in là, visibile o invisibile secondo un principio del quale non è dato sapere. Ciò detto, non rimane che riferire di coloro ai quali, per questo o quest’altro motivo, essa s’è rivelata.

Variazione I
Il pescatore

    “Corpo di mille balene, che fissi a fare? Impalato come uno stoccafisso a guardar per aria, che ti credi è nel mare che stanno i pesci e noi si campa di pesce non di aria.”

   Il capitano della Vergine del mar, un peschereccio poco più grande di una tinozza, varato quand’era ancora piccino e che ora gli anni e la salsedine avevano ridotto a una bagnarola rugginosa, non era tipo da gettare del tempo fuoribordo. Con le mani bruciate dal sale afferrò la cima del giacchio e prese a tirar le reti, mentre una smorfia ne solcava la pelle sgualcita del viso, invecchiata di tre per ogni anno trascorso tra burrasche e pleniluni.

  Salvatore (lo stoccafisso per intenderci) annuì, si chinò sulla tolda e afferrò anch’egli il cordame recuperando con misurata lentezza, presa dopo presa, quelle reti flosce e spopolate. Il gesto era sofferto, faticato, come fossero colme e pesanti, gravide di guizzante pescato, giacché l’abitudine è usa imbrogliare i sensi e imporre all’occhio la propria misura. Di tanto in tanto, incastrati tra le maglie, venivano a galla una lattuga di mare, due o tre granchietti sull’attenti e dell’alga viscosa e nauseabonda, ma di pesci no, nemmeno di quelli minuti che sovrabbondano in quelle acque, quasi non abitassero più la sotto, nelle tenebrosità marine. Se n’erano andati altrove, forse attirati dalla “cosa” che alle prime luci del giorno s’era ficcata tra il cielo e il mare e la era rimasta in barba all’orizzonte.

   “…Alghe e melma, melma e alghe. Non s’è mai vista una tale brodaglia” Mugugnò Salvatore, sputacchiando del tabacco da mastico oltre il parapetto, prima di rivolgersi all’altro: “Capitano, oggi è meglio non supplicare Sant’Andrea, senza pesce nelle ceste finisce che ci moltiplica la miseria!”

   Un ghigno bonario scivolò dalle labbra del marinaio, mentre raccattava un anello di sughero scolorito, che era stato di un bel rosso scarlatto. Prometteva allora, in qualche bottega del porto, interminabili impieghi vantando di poter galleggiare ovunque e per sempre. Ma ora, sciupato e roso dai molluschi, abbandonate le promesse perpetue, si mostrava del tutto inutile. Il capitano, turbato, lo scagliò in mare, il più lontano possibile, accompagnandone con lo sguardo il dondolio sull’onda fino a dove poteva, stentando a lasciarlo andare.

   “Aveva anch’egli persa la brillantezza degli anni buoni? Quanto sarebbe trascorso prima che l’umido che pativa nelle ossa lo consumasse al punto da non poter più pescare?” Torvi pensieri lo assalivano trascinandolo al largo. Ad un tratto un gabbiano avido di scarto si tuffò e cinse il natello con il becco uncinato pensando a chissà quale boccone.

   “Ecco cosa m’attende. Galleggiare alla deriva, alla mercè dell’onda e poi d’un tratto, zacchete, cibo per i pesci.” Borbottò provando un certo perverso piacere. Egli sapeva di aver sacrificato al mare i suoi anni migliori ma non ne era rattristato, alcun rimpianto provava per aver disertato le case e la gente che le abitava. Invero la terraferma, gli era stata via via più sgradita, aliena, e la Vergine del mar era divenuta il suo rifugio. Il mare, al quale neppure le scogliere più brusche riescono opporsi, poco alla volta ne aveva erosa l’anima e ora si preparava a custodirne le mortali spoglie.

   “Colpa di quell’affare che ha messo tutto sottosopra!” Ci pensò Salvatore a distoglierlo da quegli infausti presagi. “Quell’intruso, quel figlio di una canocia vuota, ha stregato i pesci e rivoltato gli abissi. Che ne pensa capitano, se ne andrà o c’è da temere avanti?”

   “Apri bene le orecchie, ti dico che se quell’affare è venuto per menar le mani… noi si può star tranquilli. Non si conta nulla, si puzza solo di pesce!” Sbottò il Capitano. “Fidati, noi si deve aver paura solo del pescicane, dello scoglio infingardo e della moglie gelosa, non di questa novità. Quella “cosa” se ne sta lì per altri, per i signori della città che al mercato comprano il nostro pesce tappandosi il naso.” Concluse voltandosi verso l’oggetto metallico che se ne stava sospeso, perfettamente immobile, al largo.

   “C’ha ragione capo, a noi non ci bada nessuno, anche la mia Marieta non è più contenta di vedermi. Va alla scuola serale, impara a leggere e a fare di conto e si vergogna di me. Dice che boccheggio, che non so parlare, che somiglio a un pesce.” Fece una pausa, per accomodare una rete intricata e riprese: “Ma a che ci serve saper parlare su questa barcaccia! Quattro parole, due bestemmie e ci si intende. E quel dannato tramonto, quello infuocato che ti luccicano gli occhi da quanto è bello, lo guardiamo anche noi, ma in silenzio, senza bisogno di paroloni per ricordarlo. Capo come lo spiego alla Marieta che ne ho visti tanti e tanto belli che non li posso dimenticare nemmeno se mi rinchiude nella stiva e butta le chiavi. Dentro mi deve guardare la mia Marieta e scommetto che ci trova tante di quelle meraviglie che non dovrà leggere altro e noi due si potrà vivere contenti.” Afferrò la barra del timone, le gambe molli, scosso peggio che dai marosi, per riprendersi da lì a poco, assalito da un dubbio più concreto: “Ma il pesce Capitano? Dov’è finito il pesce?”

   “Che ne so, forse le reti si sono vuotate perché hai tardato a tirare e i pesci si sono liberati. Te ne stavi con la testa all’insù come un cane che ringhia alla luna…”

   “Alla luna!” Ripeté a gran voce il Capitano levando lo sguardo al cielo: “Una luna nova. Ecco cos’è sta roba Salvo! Sai che si fa? Noialtri ci si sposta a pescare laggiù, vedi vedi che i pesci se ne stanno pigiati là sotto.”

  Neppure il tempo di muovere la prua, che a babordo un tonno spicca un salto che pare un delfino, seguito da un altro e poi un altro ancora, a diecine, a centinaia.

   “Salvatore i tonni! Rema che stavolta, quant’è vero iddio, si riempie la stiva di pesce. Sai che ti dico, appena a terra pagherò per un altarino con dentro una bella Madonnina con la luna in braccio. E se peschiamo del pesce spada ci metto anche tre ceri, di quelli grossi, da tener sempre accesi. Viva la luna nova! Viva la vita nova! Rema Salvo rema …”

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